Era da diversi giorni che nemmeno provavo a scrivere. Annegavo il mio tempo libero in altre faccende, necessarie o meno, non importa. L’importante era che il loro rumore coprisse il silenzio che si stava facendo largo dentro la testa. La batteria dell’auto da ricaricare, i prodotti da ordinare, una serie tv da finire, perfino fare la lavatrice, erano tutti ottimi alibi per la coscienza. Fino al giorno in cui decisi di provare a spremere quel poco di meningi che mi sembravano rimaste.
Ma la bozza su word non impiegò molto tempo ad essere sostituita dalle schermate di un social passando per un blog fino a un sito che vendeva nemmeno ricordo cosa, superandosi tra loro con la stessa velocità con cui un gatto può rovesciare un vaso da una mensola e poi osservarti acciambellato sul divano, chiedendosi insieme a te chi diavolo può aver combinato quel disastro.
Sarà stato proprio quel caos di pagine internet che mescolandosi tra loro mi hanno fatto recapitare una notifica, che inevitabilmente attirò la mia attenzione ormai lasciata senza controllo come un aquilone scappato. Una mail da un mittente sconosciuto che normalmente avrebbe dovuto finire nella cartella di spam e che invece non solo salì a galla nel mare delle altre finestre, ma riuscì pure a farsi aprire da un click involontario del mouse che comunque avevo indirizzato a un’altra icona. E quando ormai il dado è tratto, prima di fare danni peggiori, meglio allontanare le mani dalla tastiera e leggere le poche parole del messaggio.
Il giorno dopo mi ritrovai a centinaia di chilometri dal computer e dalla connessione internet a banda larga a cui tra l’altro mando i miei ringraziamenti per avermi fatto finire qui.
Qui è dove appena arrivai il cellulare smise di ricevere segnale, dove giunsi solo grazie a una generosa dote di fortuna, visto che il posto non è segnato sulle mappe. Le poche case in legno a un solo piano e il tetto ricoperto di paglia spessa mi sembrarono uscite da un tunnel nello spazio tempo o più probabilmente far parte del set di una serie Netflix sui vichinghi.
Scesi dall’auto e inviai un cenno di saluto al Mare del Nord che non avendo molto da fare, spesso si diletta ad alimentare un maledetto vento freddo che sferza ogni cosa. Quel giorno rendeva inutile il tentativo del sole di provare a scaldarmi. Ringraziai comunque anche lui e mi avvicinai all’edificio più grande, piazzato in mezzo alle altre case che sembravano piazzate lì solo come cornice in un presepe. Su una di queste un’insegna in idioma sconosciuto sembrava promettere un locale caldo dove ristorarsi. Ne ebbi la conferma quando una coppia del posto vi entrò, senza badare a me che dovevo apparire come un turista fuori posto.
Ne presi nota ma proseguii. Troppa la curiosità che mi aveva spinto fino a lì.
Bussai con il pugno sulla porta di legno grezzo dell’edificio centrale. Non ero sicuro vi fosse qualcuno all’interno e se quel qualcuno potesse aver sentito il mio bussare. Il vento aveva deciso di coprire anche i suoni con la sua coperta gelida.
Dopo un intervallo di tempo che mi fece rimpiangere di non essermi fermato alla locanda, la porta si aprì e lo sguardo indagatore di una donna mi scrutò da capo a piedi. Era chiaramente una donna molto in là negli anni ma la fierezza del suo sguardo e del suo portamento lasciavano intuire che per lungo tempo doveva aver indossato una bellezza rara.
Accennai a un saluto ma lei mi precedette aprendo ancora di più la porta e spostandosi per agevolarmi l’ingresso.
A questo punto, se fossi un bravo scrittore, se fossi avvezzo ai trucchi del romanziere di successo, o semplicemente se ne avessi voglia, potrei dilungarmi nel riempire pagine su pagine di descrizioni armoniose e d’atmosfera per portarvi mano nella mano al paragrafo finale.
La realtà è che non c’è nulla da raccontare, se non che l’anziana norrena mi fece accomodare su una comoda sedia a uno dei due lati di un tavolo mentre lei andava ad occupare l’altro. Non c’era, e non c’è ancora, null’altro nella stanza che occupa tutto l’edificio, se non una quantità di piccoli libri neri tutti uguali, tutti ordinatamente riposti uno accanto all’altro sulle pareti, dal pavimento al soffitto.
«Quindi sei tu?» Mi domandò. E io pensai che non poteva avere nessun’altra voce se non quella. L’accento della lingua originale ben nascosto nella mia.
«Chi dovrei essere esattamente?» Mi piaccio un sacco quando rispondo a una domanda con un’altra domanda.
Lei sorrise appena inclinando la testa da un lato. Sembrò studiarmi in qualche modo per poi alzarsi e avvicinarsi alla parete alle sue spalle. «La mia non era una domanda.» Prelevò uno dei libricini dalla libreria e ne accarezzò il dorso con le dita. Non riuscii a vedere cosa ci fosse scritto, nemmeno se ci fosse scritto qualcosa. «Quando sono stata chiamata io ricevetti una lettera, vergata a mano, in un perfetto italiano, aulico, direbbero alcuni. Certo sono passati parecchi anni da allora.»
Mentre parlava, la donna camminava lentamente per la stanza, sempre tenendo il piccolo libro tra le mani, senza mai aprirlo. Ebbi l’impressone di osservare una stella degli anni ‘50 di Hollywood recitare una scena a beneficio di un unico spettatore.
«La scrisse un uomo che aveva passato buona parte della sua vita cercando di riempirla con qualcosa che si potesse definire… meritevole. Un uomo che aveva sempre avuto la sensazione di avere una mancanza, un vuoto. Almeno fino a quando non ricevette un’offerta di lavoro tanto particolare quanto allettante.»
Fece un pausa, forse aspettando che dicessi qualcosa. Mi sforzai di trovare una frase ad effetto o una battuta arguta, ma non mi riuscì. Riuscii solo a pensare che fino a quel momento avevo provato le stesse sensazioni appena descritte, con il risultato di far muovere rumorosamente la sedia. Evidentemente lei lo prese come un assenso a continuare.
«Fui chiamata qui. Per diventare Custode di questa particolare biblioteca.»
Al termine della frase si fermò e fissò i suoi occhi nei miei. Non ne capii il colore. Forse uno bravo azzarderebbe verde chiaro con sfumature dell’indaco pomeridiano in un settembre siciliano.
Io mi limito a dire che erano luminosi. E molto espressivi.
«Lui chiamò lei e adesso lei sta offrendo il posto a me?» Mi azzardai a chiedere, mentre ancora nella mia testa si formavano domande tanto bizzarre quanto, ora lo so, inutili, tipo il compenso o la durata del lavoro.
«A proposito, non so il suo nome, non ci siamo presentati.» Aggiunsi pentendomi immediatamente di aver forse spezzato un momento per certi versi sacro.
Invece lei sorrise ancora di più e tornò ad avvicinarsi al tavolo, appoggiò il libricino proprio al centro e si risiedette. «Non abbiamo bisogno di presentazioni. Io ti conosco già. E tu, se vorrai, potrai imparare a conoscere me.»
A quel punto mi sentii un filo confuso. Dopo quelle parole mi si presentarono diverse prospettive, alcune onestamente non molto allettanti.
«Signora, forse c’è stato un equivoco…» Iniziai a dire,ma lei si protese in avanti e prese le mie mani tra le sue. Ebbi l’istinto di ritrami, ma qualcosa mi impedì di farlo. Non so se la buona educazione o una sua qualche capacità telecinetica.
La sua voce si abbassò di tono e i suoi occhi mi inchiodarono. «I libri che vedi in questa casa contengono memoria. La memoria di ogni essere vivente che abbia visto la luce su questo mondo. Uno è il mio. A suo tempo saprai riconoscerlo, se solo lo vorrai. Questo che vedi sul tavolo è il tuo. Aprilo. E capirai.»
Ho capito.
Quando ho richiuso il mio libro lei non c’era più. Non so dove sia andata, o ritornata. Mi basterebbe aprire il suo libro e attingere ai suoi ricordi per sapere tutto di lei, perfino quello che sta pensando con una discrepanza temporale di qualche millesimo di secondo, nelle ultime pagine. Ma non lo farò. Non per qualche anno ancora.
Ho riaperto il mio libro diverse volte dopo la prima. Leggendo parole nuove ho rivissuto vecchi ricordi come sogni nitidi e reali. Ho viaggiato a ritroso nella mia memoria fino a ricordare il primo attimo di vita. Poi ho cercato il libro di mia madre e ho rivissuto il primo momento in cui ha visto il mio volto, appena uscito dal suo grembo. Null’altro ho voluto sapere di lei.
Ho la facoltà di attingere alla memoria di ogni essere vivente sul pianeta, non solo umano. Persone comuni, personaggi importanti, capi di stato. Conosco la Verità. Meglio di quanto la conosca chiunque altro.
Ho una risposta per ogni domanda.
O quasi.
Una sola domanda resta senza soddisfazione.
Perché io? Perché lei ha scelto me?
So di avere il potere di cancellare i ricordi di chiunque solo strappandone la pagina dal loro libro o, ancora più definitivamente, bruciandolo per intero.
Cosa resta di un uomo se elimini tutta la sua memoria?
Anche la Custode prima di me sapeva di poterlo fare, e sicuramente tutti quelli prima di lei.
Ma nessuno ha mai interferito. In fondo questo è il compito di un custode, proteggere.
Sul tavolo ho messo una dozzina di libri.
Vite che stanno accumulando ricordi raccapriccianti. Basterebbe poco.
Ma lei mi ha scelto perché sapeva che li avrei protetti, non distrutti.
Oppure no?
se fossi io al tuo posto cercherei il libro di quel qualcuno che non ho mai capito fino in fondo, così – forse – leggendo il suo vissuto potrei… chissà…
E niente, riesci sempre a catturarmi con i tuoi scritti, Carrettoni. Sempre. 😊
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Grazie mille. Beh, in fondo il Nostro ha un sacco di tempo libero. Chissà che non vada a leggere il tuo… 🙂
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😳 ma che davvero?
🤭🤭
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“Forse uno bravo azzarderebbe verde chiaro con sfumature dell’indaco pomeridiano in un settembre siciliano.” 👏👏👏
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Tre parole di commento, solo tre:
“Li mortacci tua”.
(detto ovviamente nell’ accezione positiva tipica romanesca che non vuole essere assolutamente un’ offesa agli avi defunti, bensì espressione di sincera e meravigliata ammirazione, come in: “anvedi che pezzo che hai scritto, li mortacci tua”! )
Certo ti fai attendere, ma quando arrivi non fai rimpiangere l’attesa 😉
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“norrena”, poi, non si batte. Ma lo sai, che te possino, che mi hai costretto a cercare la parola ?
Con un mio Amico fraterno, sin dai tempi della scuola, facciamo un gioco semplice ma divertente: a turno uno dice una parola e l’altro deve darne la definizione. Ovviamente deve farlo sul momento, senza possibilità di accedere a nessun tipo di vocabolario: ogni definizione mancata è un punto per l’avversario. Teniamo il conto dal 1985, all’ inizio erano più parole al giorno, ormai stiamo su una a settimana… ma domani gli sparo “norreno”. Se segno il punto lo dedico a te. Anche perchè mi pare che sto due punti sotto al momento, quindi sarebbe molto buono se funzionasse.
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Se becchi il punto stappo una birra alla nostra!
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OK. Punto guadagnato ! Lo sapevo, lo sapevo… Vai di stappo ! 😉
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🍺🍺🍺
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Grazie e dàje, per restare in ambito linguistico locale, il tuo naturalmente. 😁
Lo so, non scrivo più molto. Lo faccio solo quando la vena spinge, non mi costringo. Questo racconto era una bozza che ormai stava ammuffendo, riprendendolo tutto è andato da sé. Piace anche a me 🤟
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Mi piace l’idea che, nell’epoca della cancel culture, esista un Custode che protegga la memoria in una biblioteca akashica, intaccabile, eterna.
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Ecco, io ho passato una parola ad Alberto e tu l’hai passata a me. Abbiamo dato un senso alla giornata. 😉
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Ahahahah, lieta di essere stata utile!
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Così adesso io ne ho due 😀 😀
Solo che se gli dico “akashico” mi rincorre a calci nel sedere. Me la tengo per i momenti difficili…
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😂😂😂
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Puoi sempre mandargli una e-mail.
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Sarai akashico te e i tuoi bambini. Come minaccia potrebbe funzionare.
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😂
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Vedi se c’è il mio e vendilo, va
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Il problema è trovare l’acquirente 😂😂😂
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magico!
ml
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