Chiudo la telefonata e accelero, lanciando il cellulare sui sedili posteriori. Al diavolo, penso. Il motore soffre e implora di cambiare marcia ma non lo ascolto. La strada si alza, si abbassa, si piega, mentre le gomme piangono cercando di rimanerci aggrappate. La tensione accumulata durante la giornata sembra essersi raccolta nelle gambe, sedimentandosi giù giù, fino ai piedi. E l’acceleratore ne fa le spese. Vado troppo veloce, lo so, è quello che voglio. Serve a distogliere la mente oltremodo compressa in pensieri avversi.
Improvvisa un’ombra spezza il sortilegio e mi spinge a rallentare all’inizio di un lungo rettilineo. E’ una poiana che si stacca dal ramo secco di un pino e planando si stabilizza esattamente davanti al parabrezza. Adeguo la mia velocità alla sua e viaggiamo in formazione. Il rapace vola ondeggiando, come fanno i piloti militari quando salutano, io non riesco a staccare gli occhi da quella creatura che possiede il dono a cui noi uomini aneliamo da quando abbiamo coscienza.
Finisce il rettilineo, il falco sbatte le ali e dapprima quasi si ferma, poi sparisce in una cabrata fulminea che lo porta forse per sempre via dalla mia vita.
Scalo le marce e imbocco la curva a gomito. Se non avessi rallentato molto prima non ce l’avrei fatta.
Ora il motore è spento e ha smesso di maledirmi, le gomme si asciugano il sudore sul prato, i muscoli delle gambe hanno rilasciato la tensione al tappetino di gomma, che non sa cosa farsene. Il cellulare squilla di nuovo e la suoneria dedicata mi rammenta l’ennesimo fastidio.
Aria.
Mi chiudo la portiera alle spalle. Alzo gli occhi al cielo è faccio appena in tempo a sentire la poiana lanciare il suo canto greve e intenso, per poi vederla sparire dentro alle cime di un pioppeto.
Grazie, le dico.
C’è una piccola bicicletta appoggiata a un palo della luce, lungo la strada qualche metro più avanti. La riconosco, è la Graziella arancione di Bruno. Bruno è un uomo piccolo e buffo, che gira il mondo, il suo piccolo mondo, con la sua antica Graziella arancione scrostato. Ti può capitare di incontrarlo ovunque, nel raggio di cinquanta chilometri. Credo che tutti lo conoscano.
Pedala su quella bici di un’altra epoca, fin dal mattino presto, oppure cammina portandola a mano, carica di sacchetti e piccole scatole. Sulle spalle uno zaino che ormai ha perso ogni possibilità di essere ricondotto alla forma e al colore originali.
Non è un matto di paese, piuttosto una specie di apolide circoscritto alla zona.
Non so se Bruno è il suo vero nome, ma a me piace pensare di sì.
Cerco con lo sguardo oltre cespugli di rovi e alberi e alla fine scorgo i suoi folti capelli bianchi spiccare sopra il giaccone pesante, coperto dall’immancabile giubbino catarifrangente giallo.
Accondiscendo a seguire l’istinto e lo raggiungo, anche se, pur vedendolo quasi tutti i giorni, in realtà non lo conosco.
Buongiorno, gli dico. Buonasera, mi risponde. Ha ragione, ormai è sera. Si volta e mi sorride come se mi conoscesse da sempre, mentre realizzo di non aver mai sentito prima la sua voce. Lui torna a guardare avanti a sé, oltre lo scrosciante canale d’irrigazione che non avevo mai notato, oltre campi geometrici colorati di giallo e verde e oltre le colline. Il sole è al tramonto.
Bello, commento. Meraviglioso, dice lui.
E ha ragione ancora una volta, è meraviglioso. Inutile cercare di descriverlo, non sono in grado di farlo.
Restiamo in silenzio, fino a quando anche l’ultimo spicchio di sole sparisce.
Poi Bruno si muove, con un movimento goffo, quasi a scatti, che in qualche modo mi ricorda quello di un acrobata su un filo sospeso.
Mi guarda ancora e sorride, provocando in me un’identica reazione.
Improvvisamente mi domando cosa sto facendo e mi rispondo che non ha importanza. Sto bene.
Sento di dover dire qualcosa e farfuglio parole senza senso.
Lui alza una mano come se si dovesse scusare di qualcosa. Aspetta, mi dice, tra poco arriva.
E arriva. Si alza un vento tiepido e fragrante. Come un musicista accarezza le corde di un violino, il vento accarezza rami e foglie e diffonde la sua musica.
Bruno sorride e allarga le braccia per accogliere tutto, aria, musica, profumi. Comincia a dondolare leggero leggero, con gli occhi chiusi e un’espressione beata sul volto.
Sorrido, divertito e rilassato. Provo il desiderio di imitarlo, mi guardo intorno come per essere sicuro che non ci sia nessuno. Ci sono i fili d’erba, i cespugli, gli alberi che cantano silenziosi, la mia auto che si domanda dove sono finito.
Passa un camion, veloce e rumoroso come un aereo di linea. Passa rapido quel tanto che serve a ignorare un tramonto, lo scroscio dell’acqua, il canto del vento.
Passa sopra il mio desiderio appena abbozzato e lo trascina via.
Me ne vado.
Rientro in auto con la precisa sensazione di aver mancato qualcosa. Come quando la mente sta per afferrare quella verità che può rispondere a qualsiasi domanda, ma per farlo deve sporgersi nel vuoto, e ne ha paura.
Forse, quella paura, Bruno l’ha superata.
Foto: Greta – flickr di greta
Probabilmente ha vissuto meglio di molti di noi
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Di sicuro come voleva…
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e non è mica poco…
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Questo Wal è davvero molto bello. Grazie 🙂
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Prego.
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ottimo racconto, placido nonostante la frenesia dell’auto, tutto merito di Bruno.
bellissima la maniera che ha di interpretare il vento, lo sente in anticipo e poi ci si fonde ondeggiando.
molto piaciuto il tono descrittivo che hai usato, lieve, senza affondare i colpi, lasciando al lettore ampio margine di ascolto.
ml
(ottima la foto di Greta)
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Grazie, di tutto.
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