#17 – Punti di vista

Il bicchiere sul tavolo è mezzo pieno e nell’acqua agitata galleggia qualcosa di scuro.
Il poliziotto buono l’ha appena posato, dopo aver bevuto un sorso. Si tampona il labbro inferiore con il dorso di una mano e sospira. E’ stanco e vuole tornare a casa. Lancia un’occhiata all’orologio da polso e sospira di nuovo. La partita ormai sta iniziando. Se va bene potrebbe riuscire a godersi il secondo tempo. Si allarga il nodo della cravatta e raccoglie le foto sparse sul tavolo. Poi torna a rivolgersi al tipo ammanettato seduto dall’altra parte del tavolo, che tiene lo sguardo fisso verso il basso.
Ha deciso che farà ancora un tentativo, poi lascerà nuovamente il posto al collega, quello che fa la parte del cattivo.
“Allora, Marco, non ti dispiace se ci diamo del tu, vero? Ormai siamo chiusi qui dentro da parecchio.”
Marco non risponde. Continua a non alzare lo sguardo verso il suo interlocutore. Si tormenta le mani ammanettate con le unghie, i polsi ormai escoriati dal metallo. Se si fosse preso la briga di chiamare un avvocato almeno questi gli avrebbe fatto togliere le manette.
Il poliziotto buono posiziona quindi le foto sul tavolo, una accanto all’altra, rivolte verso Marco, che le osserva avidamente per l’ennesima volta.
“La riconosci?” Chiede il poliziotto meccanicamente, ormai sicuro, come le volte precedenti, che non riceverà risposta.
Invece Marco annuisce. Il poliziotto si sorprende, ma cerca di non darlo a vedere.
“Sai dirmi il suo nome?”
“Anna.”
Dopo più di quattro ore è la prima parola che gli sente dire. Lancia un cenno appena percettibile verso lo specchio a parete oltre il quale i suoi colleghi seguono l’interrogatorio. “Anna,” ripete con enfasi, “sai dirmi chi era?” Lo chiede anche se naturalmente già conosce la risposta.
Neo sposina dell’uomo che l’ha uccisa tre giorni dopo le nozze, durante la luna di miele in questa città. La sua città. Se il bastardo che ha di fronte avesse aspettato di tornarsene a casa prima di massacrarla a coltellate, almeno ora lui avrebbe potuto vedere la finale di campionato invece di passare la serata cercando di far confessare un omicida colto sulla scena del crimine, ancora con le mani sporche di sangue.
“E’ mia moglie.” Risponde Marco.
“Ok, stiamo andando bene. Ora dimmi solo perché l’hai uccisa così possiamo tornare tutti a casa.”
“Io non l’ho uccisa.”
Il poliziotto chiude gli occhi e raccoglie tutta la pazienza che ancora riesce a trovare per non esplodere. Pensa che la prossima volta farà lui quello cattivo. Si prepara per la prossima domanda quando Marco lo precede.
“Io le ho ridato la vita. Non vedi ora quanto è bella?” Indica le foto con un movimento goffo delle mani incatenate.
Le foto mostrano una giovane donna accoltellata, ricoperta del suo sangue e riversa sul letto della camera d’albergo. Quanto di più lontano dalla bellezza, secondo il poliziotto.
“Io vedo solo una donna morta, massacrata dalla persona che aveva promesso di amarla. Tu. Perché sei stato tu ad accoltellarla, giusto?”
“Certo che sono stato io!” Urla Marco, cercando di divincolarsi. Per la prima volta da quando è stato portato nella stanza degli interrogatori, solleva lo sguardo, puntandolo dritto negli occhi del poliziotto. “Lei era morta! Siete tutti morti! Ma vi siete visti allo specchio? Morti che camminano. Zombie. É cominciato tutto tre giorni fa. Mi sono svegliato ed era pallida. La sera ha cominciato a rinsecchirsi, a marcire. Non sopportavo più di vederla putrefarsi ora dopo ora, mattino dopo mattino. Lei e tutti quelli che ci giravano intorno. Perché credi che siamo rimasti chiusi in albergo tre giorni? Per scopare?  No! Per paura! Che diavolo è successo al mondo!? Io l’amo più di ogni altra cosa. L’ho fatto per salvarla. Guardala ora, guarda le foto. Adesso è bellissima!”
Smesso di urlare Marco crolla sul tavolo, sulle foto che ritraggono la donna che ama, le lacrime che sgorgano dal volto scosso dai singhiozzi.
Il poliziotto buono è soddisfatto, il sospetto non ha confessato di avere ucciso ma ha ammesso di avere accoltellato la vittima. Tanto basta.
Lascia la stanza sperando che il suo superiore gli permetta di stilare il rapporto l’indomani, in modo da poter correre al bar di sotto per vedere la partita.
Il collega lo attende nel corridoio, un pacchetto di sigarette in mano e l’accendino nell’altra. Non hanno bisogno di dirsi nulla, un cenno per far capire che è tutto registrato e se ne possono andare.
Entrano in ascensore e il poliziotto buono preme il tasto del piano terra, mentre il collega si accende l’ennesima sigaretta della giornata.
E puntuale come al solito alla prima boccata arriva il rantolo di tosse. Un dente schizza via dalla bocca e si incolla alla porta dell’ascensore, insieme a una parte gelatinosa della gengiva e chissà cos’altro.
“Dannazione, sai che dovresti smettere di fumare.” Commenta il poliziotto buono mentre si osserva allo specchio. “Quel ragazzo è un dannato fuori di testa. Zombie, ci ha chiamato. Dev’essersi calato qualche acido alla festa di matrimonio.”
Mentre le porte si riaprono il poliziotto buono si rassetta il nodo della cravatta, ma stringe un po’ troppo e quasi un lembo di pelle del collo si stacca. Poi passa le dita pressoché scheletriche nell’unico ciuffo di capelli ancora attaccato al cranio e sorride. Il labbro superiore ormai si è rinsecchito dal giorno prima, donando alla sua espressione un sorriso perenne e sbarazzino. In effetti lo ringiovanisce.

Da qualche parte, due piani più sotto, in una delle celle frigorifere dove giacciono corpi esanimi, la morte deposita un colorito roseo sulle guance di Anna.

 

foto: web

4 Comments

  1. Racconto ben strutturato e costruito. Mi è piaciuto molto come hai fatto muovere il protagonista, il poliziotto buono. Le descrizioni sono azzeccate e non appesantiscono la trama con inutili riflessioni interne fino ad arrivare al colpo di scena finale.

    Davvero bravo.

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