Il respiro è pesante. Non solo il mio. Posso sentire anche quello dei miei compagni. Ci hanno ordinato di spegnere i motori, non so perché, non ci dicono mai il perché degli ordini che danno. Forse per risparmiare il carburante. Guardo il livello. Un poco meno di metà. Le ultime cisterne arrivate hanno fatto il pieno ai Leopard. I nostri M113 al prossimo rifornimento, hanno detto. Chissà perché nell’espressione del sergente maggiore c’era una vena di sconforto. La radio continua a gracchiare nelle cuffie ordini che non ci riguardano, fuori forse è silenzio, sta albeggiando. Non credo manchi molto. Cerco di muovere gambe e braccia per sgranchirmi, non so nemmeno da quanto tempo siamo fermi in attesa. Io sono fortunato, sto alla postazione del pilota, ho più spazio degli altri nel vano di carico, stipati su due panche di metallo e schiacciati dal peso di armi ed equipaggiamento. Nessuno parla, nemmeno Zini, che per farlo stare zitto di solito bisogna dargli una botta in testa. Vorrei aprire la botola sopra la mia testa e far entrare l’aria del mattino, al posto del fetore di uniformi e anfibi indossati da settimane, ma gli ordini, sempre quei cazzo di ordini, dicono di tenere chiuso. Ora fuori è abbastanza chiaro da riuscire a vedere qualcosa attraverso la finestrella a periscopio. Una barriera di alti e sottili alberi coltivati ci divide da uno stretto pianoro. In fondo una formazione collinare che sembra non finire mai da destra a sinistra. Colpi di artiglieria. Sono i Leopard alle nostre spalle. Si comincia. Arriva l’ordine di accendere i motori e avanzare. Mi volto quel tanto che basta a incrociare gli occhi del Tenente. Ha solo un paio di anni in più ma mi è sempre sembrato molto più vecchio. Ora è solo un ragazzino spaventato come me che finge di sapere quello che sta facendo. Annuisce poco convinto. Mi raddrizzo sul sedile e afferro le leve di comando del cingolato. Gli altri, che non hanno auricolari, capiscono. Parte un fremito seguito da clangore metallico, armi che si caricano. Il Tenente grida qualcosa ma nemmeno lo sto ad ascoltare. Io devo solo premere il pulsante che avvia il vecchio motore diesel che mi hanno fatto pulire fino alla nausea nei mesi passati in caserma. L’idea di far ingolfare il motore come mi ha insegnato Procopio mi sfiora la mente veloce come lo stormo di uccelli che prende il volo appena il mio M113 si mette in moto. Apro la botola e sollevo il sedile. Fanculo gli ordini, non si vede un cazzo attraverso i periscopi. Il mitragliere sopra di me è già in posizione. A cosa poi debba sparare lo sa solo lui. Il nemico è lontano, ben posizionato in cima alle alture. Questo attacco sembrava una stronzata già al briefing, figuriamoci ora. L’aria fredda mi penetra finalmente nei polmoni. Avvio il carro a tutta velocità. Vedo gli altri fare lo stesso, folate di gas nero si sollevano ovunque dagli scarichi. Dalla linea posteriore di fuoco i Leopard fanno capolino a turno dalle loro postazioni per sparare fuoco di copertura. Ok. Ora devo solo avanzare più veloce che posso, buttare giù qualsiasi cosa mi capiti sotto i cingoli, avvicinarmi il più possibile alla collina e poi scaricare la squadra. Il rombo del motore è talmente forte che la voce alla radio è solo un ulteriore rumore di fondo, ormai non ho più pensieri se non quello di macinare la distanza il più in fretta possibile. Un colpo sull’elmetto da parte del Tenente e mi rendo conto di essere avanzato troppo. Inchiodo premendo sui pedali delle frizioni e tirando a me le leve dei freni. Qualcuno dietro bestemmia e mi insulta. VIA VIA, ordina il tenente mentre io rilascio la paratia posteriore e nello stesso momento parto in retromarcia. Loro si buttano fuori, lanciandosi a terra a lati del cingolato. Prego che nessuno sbagli manovra e resti schiacciato dai cingoli. Usciti tutti risollevo la paratia senza rallentare. Io ho finito, ora devo solo trovare un posto dove mettere a riparo il cingolato. Il problema è che non c’è un cazzo di niente, a parte qualche albero che non nasconderebbe nemmeno uno scoiattolo. Ma gli ordini sono chiari, non allontanarsi dalla squadra di assalto. Non faccio nemmeno in tempo a finire la manovra che arriva la comunicazione. Aquila 19, colpito. Accendere fumogeno. Morti, sia io che il mitragliere. Carro distrutto. Fine esercitazione. Salvo poi essere fatto risuscitare per partecipare a un’altra azione suicida.
Per me, e per molti altri, 35 anni fa questo è stato poco più di un gioco. Ma se quella esercitazione fosse stata una battaglia vera, uomini seduti a un tavolo avrebbero fatto massacrare ragazzi la cui sola colpa era quella di non sapere nemmeno cosa stessero facendo. Esattamente quello che succede ogni giorno, ad altri ragazzi meno fortunati di me. .
Con te il colpo di scena non manca mai.
Adoro (si, “adoro” è un po’ gay, ma fa niente) queste storie.
Al di là della storia in se’, chi ti legge ha mollato una situazione per non dover prendere “ordini” e poi ne ha mollata un’ altra per non doverne dare. Quindi capisco. Capisco e anche qualcosa di più. Condivido.
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