Ispirato a fatti realmente accaduti

Dalla terrazza del locale si vede tutta la piccola città di provincia circondata dalle colline.
Sul tavolino due boccali di birra e un’aria sospesa fatta di memoria, di percezioni, sensazioni rimaste attaccate alla pelle.
Prima me ne stavo appoggiato al muro di mattoni che segue la linea curva della strada, controllando spesso il cellulare, sia per vedere che non fossero arrivati nuovi messaggi nei pochi istanti in cui perdevo di vista lo schermo, sia per controllare l’ora.
Arrivo sempre in anticipo, è più forte di me. Cercavo di ricordare se tu fossi un ritardatario e una vocina mi diceva sì, che lo eri. Ma era giusto una vocina, flebile come i ricordi che ho del mio passato.
Non sapevo cosa aspettarmi, ma temevo di vederti arrivare farcito dalla presupponenza tipica di certi uomini milanesi, cresciuti nei favolosi anni 80 e rimasti incollati a uno stereotipo ormai abusato. Quel timore di trovarti trasformato mi stava portando a fissare un tempo limite entro il quale se tu non fossi arrivato io avrei dato forfait. Un messaggio di scuse e tutto sarebbe tornato come prima.
E invece, sembra che i trentacinque anni trascorsi dall’ultima volta in cui ci siamo visti non siano passati, se non sulle carte d’identità.
Sorrido nel vederti uscire da una C1 d’annata. Un omone di un metro e novantatré che mi viene incontro a braccia aperte. Ok, ti riconosco, sei il mio vecchio e migliore amico dell’infanzia.
Solo che ti ricordavo più basso, maledetto…
Ora, seduti al tavolino che bontà sua mi permette di non sollevare lo sguardo per ascoltarti, mentre parli rivedo tuo padre, un uomo bonario e simpatico che ora purtroppo non c’è più e allo stesso modo mi pare di camminare ancora nel tuo appartamento che in pratica era la mia seconda casa come ne era tua la mia.
Mi parli di tua madre e la ricordo sempre indaffarata in chissà cosa, riempiva l’aria con i 33 giri di Julio Iglesias che giravano sul quel giradischi che ora sarebbe un cult fra i collezionisti, e che probabilmente ancora possiede. Non te l’ho chiesto se ce l’ha ancora. E tua sorella, ai tempi tanto carina quanto sfuggente, cerco di immaginarla adesso, felice madre di due figli.
E continuiamo a raccontarci, tu con quella voce che devo ammettere faticavo a ricordare e che ora mi è di nuovo così familiare e io con la mia nuova capacità di esporre quei pensieri che quattro decenni fa forse non avevo.
Molte delle domande che in questi anni attendevano una risposta vengono archiviate dai tuoi racconti. Sembra che tu sappia tutto di tutti, dei nostri vecchi compagni di scuola, delle loro storie. Ammiro la tua memoria, che va a riempire le lacune della mia e al contempo mi fa seriamente preoccupare per il futuro. Devo proprio decidermi a scrivere le mie memorie, almeno quelle che ancora ricordo.
In compenso i nostri ricordi in comune scivolano fuori con serenità mescolandosi alle tue storie di viaggio e a momenti condivisi di consapevolezza personale.
Racconti, e mi accorgo che non sei cambiato affatto, a tratti mi sembra di rivederti, svaccato sul letto della tua camera dove passavamo ore. In qualche modo comprendo benissimo che tu abbia scoperto di star bene anche da solo e, come nella migliore tradizione, abbia avuto bisogno di viaggiare tra i continenti per trovare la tua strada e il tuo mondo proprio nel punto da cui sei partito.
E io non ce la faccio a non provare un pizzico di invidia. Perché tu eri l’amico alto, quello splendido che non aveva problemi a parlare con le ragazze, che sembrava sempre contento, che pareva sempre sapere cosa fare.
E io per tutti questi anni non ti ho cercato, pur avendone spesso la tentazione, per la paura di scontrarmi con ciò che avrei voluto essere è che sapevo non sono e non sarò mai.
Invece eccoti qui, adesso, che come se niente fosse mi riveli di avere sempre avuto un’alta considerazione di me, che sono sempre stato diverso dagli altri, il carrettoni, categoria a parte (certo la tua confessione che la mia consolle Atari ha avuto un ruolo importante nel farmi guadagnare punti mi riporta giustamente con i piedi per terra).
E comunque mi hai dato una bella botta di autostima, devo ammetterlo. Vedermi attraverso il tuo sguardo mi ha permesso di far sparire quella patina di sporco dagli occhiali con cui osservo il passato.
Per cui grazie.
Grazie a te di avermi trovato e grazie al caso che ci ha fatto fortuitamente rincontrare così presto.
Grazie alle tue parole che hanno riassestato qualche colonna traballante della mia impalcatura.
Ora che ho riallineato la tua immagine reale con quella distorta che si era formata nel tempo, spero di mantenerla a lungo.
Però sei troppo alto, cazzo.

27 Comments

  1. Un profondo ritrovarsi 🙏
    È vero: quando non vediamo una persona dopo molto tempo, e qua parliamo di 35 anni, pensiamo che sarà cambiata… e invece no! Come se il tempo e le distanze si annullassero grazie alla potenza dell’affetto profondo che lega te e quella persona.

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      1. Propongo di tenere in sospeso l’apocalisse e mantenere la good vibe di questo incontro con amico dall’altezza eccessiva. E comunque altezza mezza bellezza. Che vuol dire che resta sempre una mezza bruttezza. Io conosco persone alte ma veramente brutte. Si può dire brutte? La bellezza è negli occhi di chi guarda. Anche la realtà. Infatti viviamo in un mondo di cecati.

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  2. Del tuo post mi ha colpito in particolare questo passo: “temevo di vederti arrivare farcito dalla presupponenza tipica di certi uomini milanesi, cresciuti nei favolosi anni 80 e rimasti incollati a uno stereotipo ormai abusato.” A cosa alludevi?

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      1. Hai proprio ragione: i milanesi e i lombardi in generale sono cresciuti nel mito di Berlusconi, e quindi vogliono tutti avere la “fabbrichetta”, vogliono essere tutti imprenditori e si sentono dei falliti se lavorano per qualcun altro. Ragionamento sbagliatissimo: sia perché non c’è nulla di male a fare il dipendente, sia perché in caso di crac dell’azienda è molto meglio essere nei panni del dipendente che in quelli dell’imprenditore.
        A proposito di film, hai visto Speed Kills?

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