L’unico caffè degno di essere considerato tale è quello preparato da Assunta. Questa è una delle poche ferree certezze che permeano la vita di Saverio. La sua preparazione è un mistero che Saverio non ha e non ha mai avuto intenzione di conoscere. Al contrario di tutto ciò che riguarda ogni forma di conoscenza del pensiero umano di cui Saverio, o il Maestro, appellativo con cui è da tutti conosciuto nonostante non abbia mai avuto a che fare con l’insegnamento, è un fine studioso.
Ripone la tazzina sul piattino e dopo aver elargito un soddisfatto sorriso ad Assunta lascia la cucina aiutandosi con il fedele bastone da passeggio. Assunta lo osserva con sguardo vigile e premuroso mentre recupera tazzina e piattino dal tavolo.
Il Maestro non vuole farsi aiutare. Il suo orgoglio è quasi più radicato della sua cultura. Nonostante i 97 anni e gli insulsi ed inutili, come ama definirli, acciacchi del corpo, non desidera l’aiuto di nessuno per muoversi all’interno dell’antica casa di famiglia. Come ogni mattina da ormai molti anni attraversa il lungo corridoio della facciata sud, dalle cui finestre affacciate sulla strada principale del paese penetra la luce calda dell’estate siciliana che illumina e riscalda i premi, le onorificenze e gli innumerevoli libri scritti da Saverio.
Più sotto, sulla strada, qualche avventuroso turista si sofferma di fronte al palazzo chiedendosi se si tratta proprio della casa di famiglia del famoso scrittore ormai ritirato a vita privata. Le voci giungono ovattate alle orecchie di Saverio, ma inequivocabili, soprattutto quella di Mimmo il barbiere che puntualmente conferma l’informazione ai turisti di turno.
Un raggio di sole più ardito degli altri illumina un libro in particolare nella lunga fila di volumi. Saverio non può fare a meno di notare che si tratta del suo primo lavoro, quello che lo ha consacrato come autore riconosciuto in tutto il mondo. Osservandolo ora, quasi si vergogna delle parole vomitate in quel volume. Una storia banale dal finale scontato e dai protagonisti tagliati con un’accetta arrugginita. Ma che ha venduto milioni di copie. All’età di vent’anni ha trovato quello che il pubblico voleva e che a lui stesso piaceva leggere. Spazzatura. Immonda spazzatura che per anni ha continuato a produrre, pronta per essere fagocitata da milioni di macchine trituratrici, i suoi lettori.
A fatica il Maestro riprende il cammino lungo quel corridoio, con i piedi lenti e leggermente malfermi avanza accanto a quei libri che hanno segnato la sua carriera e la sua vita. Finalmente dopo quella che è sembrata un’interminabile sequela di libri dozzinali, ma dalle vendite milionarie, si sofferma dinanzi al primo volume che ancora oggi sente di amare veramente. La sua prima raccolta di poesie. Appoggia il bastone al muro e con lentezza fa scivolare il piccolo libricino nelle mani. Lo sfoglia come se accarezzasse la testa di un figlio, e la similitudine non è affatto lontana dalla realtà. Poche poesie, una decina, scritte sotto l’impulso di una volontà più forte di lui e osteggiate dal suo editore dell’epoca. Le pubblicò a sue spese. E poi altre, e poi altre ancora. E fu ancora più acclamato, osannato, fino ad essere considerato il più grande scrittore vivente di tutti i tempi. Qualcuno arrivò perfino a paragonarlo a Dante Alighieri. Iniziò allora a scrivere saggi, trattati, volumi accademici. Vinse un premio Nobel per la Letteratura e uno per la Pace, grazie all’effetto distensivo di una sua particolare opera su alcuni potenti della Terra. Non si aggiudicò il Nobel per la Matematica solo su intervento, si dice, della Santa Sede, che non gradì la sua idea di accostare la figura di Dio ad una formula algebrica.
Per anni la sua presenza fu richiesta in celebrazioni ufficiali o come patrono per organizzazioni di ogni genere.
Poi la decisione di ritirarsi a vita privata, quasi monastica, l’intenzione di trovare la concentrazione e l’ispirazione necessaria a scrivere il suo capolavoro.
Saverio risistema il libricino al suo posto e raggiunge lo studio in fondo al corridoio, posto nella stanza più fresca e riparata del palazzo. Nulla che possa distrarlo, solo una scrivania, una sedia, fogli di carta e una penna stilografica. Dalla finestra semiaperta sul giardino interno arrivano solo i cinguettii di qualche uccellino e saltuariamente il miagolio pacioso del gatto di casa.
Una volta sistemato alla scrivania, l’uomo rilegge con attenzione quanto scritto il giorno prima.
Parole.
Solo parole.
Tratti scuri disegnati su carta che si trasformano in sensazioni nella mente di chi sa interpretarli.
Altrimenti inutili graffiti per chi non riesce, o non vuole, comprenderli.
Una virgola. Un punto. Un termine al posto di un altro. Quanto possono cambiare il senso di una frase?
Saverio scrive, cancella, modifica, strappa e riscrive.
Come un moderno Michelangelo che cerca di liberare le statue vive dal marmo di cui sono prigioniere, Saverio con il pennino della stilografica cerca di dare un appiglio alle parole per liberarsi dal sottile foglio di carta in cui sono relegate e desiderose di fuggire.
A tratti furiosamente, a tratti con soave beatitudine, infine il maestro riesce nel suo intento.
Quasi incredulo di esserci riuscito, poggia la stilografica ormai esausta sullo scrittoio e solleva il foglio alla luce del pomeriggio inoltrato in modo da rileggere ancora una volta quello che sa essere il suo scritto perfetto.
Con un gesto che non a torto potrebbe essere scambiato per amore agli occhi di un ignaro spettatore, il vecchio uomo accarezza la penna che tanto tempo ha fatto danzare tra le mani e che ora può finalmente congedare.
Quasi non sente più i dolori nelle ossa e la fatica nei muscoli mentre sotto lo sguardo incredulo di Assunta si prepara a uscire di casa.
La fidata governante si precipita ad aiutarlo nell’indossare la giacca da passeggio e l’elegante cappello a memoria di tempi passati, premurandosi di domandare dove sia intenzionato a recarsi. L’unica risposta di Saverio è un inaspettato sorriso e un ringraziamento. Assunta, che è sì donna fidata e discreta, ma pur sempre soggetta alle debolezze umane, non resiste alla tentazione di avvisare subito l’unico buon amico del Maestro, nonché suo attuale editore.
La notizia che lo scrittore più grande e conosciuto del mondo sia uscito dal suo ritiro si dilata per il paese come un’onda anomala. In breve la strada che corre dal palazzo di famiglia del maestro all’ufficio dell’editore si riempie di una folla silenziosa e rispettosa. Tutti sono a conoscenza della eremitica ricerca del Maestro della Poesia Capolavoro e il fatto che sia finalmente uscito di casa non può che voler dire una sola cosa.
Lo scrittore cammina senza esitazioni verso la sua destinazione, apparentemente incurante di tutti coloro che lo salutano al passaggio, chi con foga, chi con riverenza, ma tutti con estremo rispetto.
Quando finalmente giunge in fronte all’edificio che ospita l’editore, questi è già ad attenderlo sulla porta, con un sorriso eloquente e le braccia aperte.
Anche Saverio sfodera un sorriso di saluto e al contempo di commiato verso il vecchio amico. Prosegue quindi senza interrompere la passeggiata tra lo stupore generale e un brusio curioso.
Anche l’amico editore si unisce al corposo corteo che prosegue fino alla fine della strada dove, tra la perplessità dei presenti, il Maestro conclude il suo viaggio.
Il titolare dell’impresa che lo vede entrare quasi si strozza con il cannolo siciliano che sta degustando e non può fare altro che riceverlo con tutti gli onori e le gentilezze di cui è capace.
Saverio non perde però tempo in convenevoli, come sua consuetudine. Estrae il foglio manoscritto dalla tasca interna della giacca e lo porge all’uomo che, ancora stupito dalla visita del Maestro, accetta il foglio solo dopo una cortese insistenza del suo ospite, vincendo il timore causato da tanta inaspettata confidenza. Con un leggero tremito alle mani lo dispiega e ne legge il contenuto una prima volta, poi si risiede alla scrivania del suo modesto ufficio e rilegge lentamente quelle poche parole che hanno il potere di scuoterlo e commuoverlo nel profondo mentre il Maestro, paziente, studia la sua espressione, traendone le desiderate e attese conclusioni.
“Quindi, lei desidera…” Domanda l’incisore, accennando verso il manoscritto.
“Sì. E’ ciò che desidero. Questo è il mio ultimo componimento. Queste poche righe sono la somma massima della mia arte oltre la quale non posso sperare di giungere e per la quale desidero essere ricordato. Per questo voglio che sia inciso sulla mia lapide. A tempo debito, naturalmente. E ora credo che andrò al Bar della Piazza a mangiarmi uno di quei favolosi cannoli. Con permesso…”
delicato e affettuoso questo tuo brano, manca il capovolgimento finale a cui ci hai abituato e qui è giusto che sia così.
Il vecchio scrittore, da buon narcisista (ognuno di noi che tenta di scrivere ha una dose più o meno cospicua di narcisismo), non poteva che pensare alla propria lapide come testo per le sue ultime, definitive parole.
molto piaciuto.
(sorrido al malevolo scherzo che ti giocato wordpress chiudendoti a tradimento i commenti)
ml
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Come sempre ti ringrazio del passaggio qui e del gradito commento.
Sì, ci sto lavorando al mio epitaffio, mi piace però pensare di non potermi permettere di lasciare questa valle di lacrime fino a quando non lo avrò finito…
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