Forse non c’è stato un momento esatto in cui ho deciso di farlo.
Può essere successo all’ennesima battuta idiota di Matteo, o allo scoppio della risata sempre uguale quanto vuota di Federica. Oppure semplicemente era arrivato il momento.
Senza scalpore, senza pathos. Un piccolo istante che ha aggiunto una piccola goccia al vaso, quel secondo in più trascorso a osservare il mondo che mi scivolava attorno. Mondo costruito da gesti sempre diversi eppure ripetitivi. Gesti e momenti come mattoni a formare un muro sempre più alto, a separare la vita che si vorrebbe vivere da quella in cui ci si trova. E tu a guardarlo quel muro, sempre più alto e sempre più fragile nelle fondamenta. Fino poi a trovartici sopra, a guardare dall’altra parte fissando il vuoto.
E poi a lasciarsi cadere, nel vuoto.
Quindi mi sono alzato piano, abbandonando il discorso di Mauro, che forse stava parlando a me, forse ad Angela. Di sicuro io non lo stavo ascoltando, lei non so. La sua voce era solo una frequenza più forte che si insinuava su un tappeto di chiacchiere, risate, schiamazzi di bambini e tonfi dei tuffi in piscina. Ho fatto un cenno a Chiara, sollevando la bottiglia di birra vuota con una mano e indicandola con l’altra, vado al super, le ho mimato con le labbra, prendo altre birre. Rispondo alla sua aria interrogativa con un sorriso e una leggera alzata di spalle.
Qualcuno si offre di accompagnarmi, forse Achille, la voce si diluisce nell’urlo della figlia piccola di Giorgia che ha perso il ciuccio in piscina, diniego, ringrazio, sono già in strada, oltre la siepe fiorita che divide la mia casa il mio giardino la mia piscina la mia famiglia i miei amici la grigliata di ferragosto dal resto del mondo. Conosco ogni oggetto e ogni anima di quello che lascio dietro quella siepe, o almeno sono convinto di conoscerlo. Salgo in auto, avvio, la radio si accende e subito la spengo. Non voglio sentire voci, parole.
Esco dal vialetto di casa, guido piano verso la zona commerciale, la supero.
D’istinto o per abitudine allungo una mano verso il cruscotto ma mi accorgo di aver lasciato quello che cerco chilometri indietro, dall’altra parte della siepe, dall’altra parte del muro. Immagino Mauro e Angela che lo sentono squillare, le loro voci dire a Chiara che il telefono è lì, che devo averlo dimenticato.
La strada si fa libera, sgombra. Perfino i semafori, le rotatorie, gli incroci sembrano essere da qualche altra parte a festeggiare la festa d’agosto. L’asfalto scivola sotto le ruote come i pensieri scivolano fuori dai finestrini. Guido piano, canto vecchie canzoni, piano.
Il motore elettrico dell’auto non riceve più energia, si spegne. Sicuramente ha cercato di avvertirmi. Ma l’ho ignorato come ho ignorato i cartelli sulla strada e il tempo nell’orologio.
Riesco ad accostare in una piazzola della strada di fondovalle, quale valle sia non lo so. Alte montagne attorno, un fiume lento e silenzioso più in basso. Esco dall’auto e imbocco un sentiero che inizia da quella piazzola e si inoltra tra gli alberi sul fianco della montagna. Piccoli simboli incisi su piccoli pannelli di legno lo identificano. Per me è arabo. Cammino e mi rendo conto che non cammino veramente da moltissimo tempo. Cammino per il sentiero senza pensare a nulla, senza incontrare nessuno. Se non fosse per la fatica e l’aria che da tiepida diventa forse anche troppo fresca avrei continuato per chissà quanto. Ma il sole è sceso da parecchio oltre la cima delle montagne e inizia a non esserci molta luce.
Improvvisamente mi rendo conto di cosa ho fatto. Il muro che ho pazientemente costruito in tanti anni ora è lontano e io sono immerso nel buio che prima mi limitavo a osservare.
Mi sono perso.
Dovrei averne paura, invece non provo nulla, e questo mi fa paura.
Mi siedo sotto un grosso albero e aspetto. Fa freddo. È buio. Aspetto che sia di nuovo caldo. E luminoso.
Chi mi sveglia non parla. A gesti mi fa capire di alzarmi e seguirlo. Lo faccio senza fatica, senza esitazione. Camminiamo per molto, al di fuori di sentieri o vie battute, io e la mia guida che silenziosa mi precede di qualche passo, fino a quando la prima luce accende l’orizzonte delle cime tutt’attorno e i suoi gesti mi permettono di capire che siamo arrivati. Mi aspettavo di trovare un paese, un villaggio o un rifugio, invece mi trovo di fronte a una specie di capanna di tronchi, circondata da alberi e cespugli di rovi fioriti.
L’interno sembra la tana di un eremita o di un hippie scappato dalla civiltà. O una hippie. La persona si rivela essere una donna dall’età indefinita. Una vecchia dalle fattezze di ragazzina o al contrario, una giovane dalle movenze che fanno trasparire una saggezza antica. Con pochi gesti ravviva il fuoco ormai ridotto a brace e un caldo chiarore ci illumina. Poi mi offre del cibo, una specie di pane, bacche e frutta secca, insieme a un sorriso e un bracciale di corda e sassi colorati, forse un regalo di benvenuto. Sorrido anch’io.
Non si smette mai di costruire quel muro. Ogni istante un mattone. Ma questa volta mi trovo dalla parte in cui voglio essere. Per giorni, mesi, forse anni non lo so. Ho perso la misura del tempo, non lo sento scorrere, ma lo vivo. Lei non parla molto e la sua voce è sempre calma, confortante. Non mi chiede nulla della mia vita di prima e nulla domando io a lei. Qui niente ha più importanza se non vivere e godere del solo fatto di vivere. Serve poco per farlo, non sento bisogno di niente che non sia necessario, aria, acqua, cibo. Godo di ogni giorno e di ogni momento, leggero.
Lei è sempre uguale, a volte sembra una bambina, a volte una madre.
Ogni giorno le racconto sempre un’altra mia vita e lei fa finta che non l’abbia inventata. La notte canta canzoni che non ho mai sentito e mi addormento al suono della sua voce. Il mattino nulla si ripete, ma tutto si rinnova.
Fino a oggi.
Oggi mi guardo le mani e non le riconosco. Cerco di ricordare da quanto non vedo la mia immagine riflessa. Mesi? Anni?
Sto bene qui, ma ho bisogno di una risposta alla domanda che come un’onda leggera torna sempre a lambire la mente. La domanda che mi faccio da quando lei mi ha svegliato.
Oggi ho deciso di sapere.
Le chiedo di accompagnarmi e me ne pento subito, appena la tristezza le appanna gli occhi. O forse è delusione. Senza indugiare si inoltra nel bosco. La seguo come la prima volta, senza parlare e senza far caso a nulla se non al suo modo di danzare leggera tra la vegetazione.
Quando infine si ferma, so che siamo arrivati.
Come hai fatto a trovarmi, le chiedo.
Non sono io che ti ho trovato, mi risponde, tu hai trovato me.
E come?
Perché ti eri perso.
Si scosta per farmi passare e riconosco il grande albero a cui mi ero appoggiato.
E sì, mi dico, ecco la mia riposta.
Vedo le gambe distese nell’erba, le scarpe da ginnastica nere ancora ai piedi, il resto del corpo nascosto dal tronco dell’albero. Mi volto, lei si è ritratta, la testa ondeggia lenta, come a dire no.
Allungo una mano nella sua direzione ma un grido squarcia il silenzio. Sentire la voce di Mauro è uno shock. Grida il mio nome così forte da cancellare ogni rumore naturale nei dintorni. Mi volto di nuovo verso l’albero. Quelle scarpe nere si muovono veloci, e le gambe al di sopra corrono trasportando il resto del corpo di Mauro verso di me. Cerco di ignorarlo, corro in direzione opposta cercando lei, trovo solo alberi e cespugli.
Il muro crolla.
Mi inghiotte, mastica, sputa dall’altra parte.
Mi hanno ritrovato dopo una giornata di ricerche, grazie al GPS dell’auto.
Negli anni sono tornato a quell’albero decine di volte. Decine di volte ho pensato di aver immaginato tutto, di aver sognato.
E decine di volte ho accarezzato il bracciale di corda e sassi colorati.
L’ultima volta l’ho lasciato lì, tra le radici.
Perché voglio perdermi di nuovo, ma non posso farlo fino a quando so dove tornare.
Nota:
Mentre scrivevo questa storia mi sono reso conto che la sua atmosfera ricordava molto una vecchia canzone. Così quella canzone è entrata nella storia.
Se volete, eccola:
Ho visto un documentario di uno psicologo francese che riesce ad autoipnotizzarsi stringendo il suo stesso pugno. Così può andare avanti senza dormire fino a 72 ore, poi stringe il pugno, va in ipnosi e in 5 minuti recupera tutto il sonno, la vitalità …mi ha ricordato questo la tua storia. Il potere della mente a saperlo usare appieno ci darebbe esperienze pazzesche al pari degli allucinogeni. Bellissimo racconto Walter.
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Grazie e buona domenica. Onestamente preferisco farmi una bella dormita quando serve!
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Intanto io ho i brividi sulle gambe! Grazie Walter!👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏👏💋
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Eh sì, fa freschino adesso… 😁
Grazie a te!
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😂😂😂😂😂😂😂😂😂😂😂💋
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Bello questo racconto… a volte si ha proprio voglia di perdersi un po’…
Complimenti 👍
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Grazie 😊
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Lasciare andare/perdere o rimanere nel porto sicuro?mah…
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Eh, chi lo sa…
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