#151 – La città dimenticata

Lei aspetta.
Questa volta ha deciso di aspettare. Aspetta seduta sul grande divano stile Impero che è stato di sua madre e ancor prima della madre di sua madre.
Il divano su cui era seduta quando lui le ha chiesto la mano. Antico mobile che ha visto passare guerre e generazioni.
Aspetta e divaga, con la mente che accarezza i ricordi e le mani che accarezzano lo spesso velluto dei cuscini.
Il rintocco sordo dell’orologio a pendolo torna puntuale a ricordarle lo scorrere del tempo. Le lampade ad olio illuminano il salotto sempre con il solito scarso entusiasmo, lo stesso che lei ha nel ricaricarle. In fondo, dalle finestre comincia a farsi strada un’idea dell’alba. Eccolo, quel preciso momento in cui il buio della notte cede il passo al primo chiarore. E’ impercettibile ai più, che non prestano la dovuta attenzione, al contrario di lei a cui è sempre piaciuto quell’istante così impalpabile eppure così reale.
Lui compare nel salotto senza preavviso. Lei doveva essere così concentrata sull’alba da non avvedersi del suo arrivo.
“Debora, cara, ti sei svegliata presto.” Si presenta lui, sulla difensiva.
“Mirco…” Lo appella lei, a mo’ di saluto, “ultimamente non riesco a conciliare il sonno.”
Lui vorrebbe rispondere con qualche parola che possa servire ad stemperare il momento, ma tutto ciò che la strana foschia dimorante nel suo cervello riesce a produrre, e che prende poi la via delle labbra, è un gemito che nelle migliori intenzioni assomiglierebbe a un eh già. Al contempo tutta la poca concentrazione che ancora resiste all’oblio è catalizzata dalla vecchia bottiglia di brandy che prende polvere da secoli sul tavolino di fronte al camino spento, salvo poi farsi sconfiggere da un rapido quanto inatteso momento di lucidità che suggerisce non essere l’ora adatta per un ulteriore bicchiere.
“Che dici,” domanda Mirco, “facciamo colazione?”
Lei lo squadra da capo a piedi, trattiene a stento giustificate imprecazioni. “Non saresti in grado nemmeno di bere un bicchiere d’acqua in quelle condizioni.”
“Esatto!” Esclama lui. “Infatti, forse, un bicchierino di quel bran…”
“Non osare toccarlo!” Sentenzia lei alzandosi di scatto.
Ma è tardi, lui ha già messo in movimento tutti quei muscoli del corpo che nelle loro migliori intenzioni volevano portare una mano ad agguantare la bottiglia, ma che dopo il contrario e perentorio ordine della moglie non sanno più che cosa fare e si contrastano un con l’altro, con il solo risultato di andare a sbattere tutti insieme contro la bottiglia e ruzzolare a terra provocando un gran fracasso.
La donna si allontana di scatto per evitare di inzaccherare la larga gonna a balze con lo stagionato liquore e libera finalmente i pensieri e le parole nefaste che l’hanno accompagnata per tutta la notte. “Maledizione, Mirco! Idiota! Stupido idiota ubriacone! Sai quanto ci tiene mio padre! O Gesù! Potevi anche evitare di tornare a casa…”
Il fiume di parole continua, imperterrito e incontrastato, si riversa sull’uomo steso a terra che ormai è tutt’uno con il vecchio tappeto persiano e i vestiti inzuppati dal brandy del suocero. Fiume di parole che nelle orecchie di Mirco perdono senso e si mescolano solo al pensiero che in fin dei conti quel liquore non valeva tutto quel casino.
“Andiamo,” riesce a infilare in una piccola pausa della moglie, “non è poi così grave.”
A quelle parole la donna si tacita, compunta. Stira nervosamente la gonna con le mani e si muove convulsamente avanti e indietro, convinta di dover rimettere in ordine in fretta ma non decidendosi sul farlo.
“Dove sei stato?” Chiede infine, cercando di riprendere in mano il filo del discorso preparato nelle ore precedenti.
Lui risponde con un altro grugnito da manuale, e se non fosse per il precisissimo calcio che la moglie gli assesta a una caviglia, l’avrebbe sicuramente data vinta alla voglia di chiudere gli occhi e dormire. A fatica, e dolorante, si solleva e prende posto nel piccolo sofà in fronte a lei lasciandosi sprofondare nella morbida seduta, dando quasi l’impressione di sparirci dentro.
“Un grave lutto, mia cara. Eusebio, il farmacista. È venuta a mancare la sua nipotina. Una tragedia. Eusebio si è lasciato prendere dallo sconforto, c’è voluta tutta la notte per convincerlo a non compiere un gesto folle e sconsiderato.” Racconta tutto d’un fiato, poi si porta una mano sugli occhi e attende silenzioso una reazione.
“Una vera tragedia…”
“Assolutamente, mia cara.”
“Pensavo che dopo una settimana se ne fosse fatto una ragione.”
L’uomo sembra risvegliarsi un poco, colto di sorpresa dal commento della moglie. “Una… settimana…” Ripete.
“Da tanto è venuta a mancare la nipote, giusto? Credo me ne abbia parlato Enrichetta. Incredibile che Eusebio abbia ancora necessità del tuo supporto morale e, soprattutto, della tua compagnia al pub.”
“Cosa devo dirti, cara… Forse ha subito una ricaduta…” Risponde lui cercando di conferire un tono convinto alle parole.
“Certo, sicuramente,” commenta lei con un leggero tono scherzoso, “e poi la nipote di Eusebio aveva solo 74 anni, una bambina…”
“Nel fiore degli anni…” Sussurra lui, convinto.
“Io credo, invece,” continua la donna sporgendosi in avanti, “che dovresti evitare di inventare fantasiose bubbole per coprire le tue avventure.”
“Bub… bubbole? Ma…”
Debora interrompe il marito con un gesto finale. “Basta. Siamo lo zimbello del paese. Io sono lo zimbello del paese. Devo solo ringraziare che i miei genitori siano talmente anziani da non occuparsi più di queste faccende e che le mie amiche più intime abbiano ancora la grazia e la misericordia di venire a trovarmi a casa.”
“Ha!” Esclama lui, cedendo infine alla tentazione di riprendere la bottiglia da terra e versarsi un dito abbondante del brandy ancora rimasto. “Le tue amiche!”
“Esatto. almeno loro mi sono fedeli.”
“Cosa vorresti dire con questo?”
“Lo sai benissimo, caro, cosa intendo.”
Lui non risponde, socchiude gli occhi e per qualche istante non lascia intendere se stia per dire qualcosa o cedere definitivamente al sonno. Infine si raddrizza sul divano e posa il bicchiere.
“Non crederai davvero a quello che vengono a raccontarti le tue sedicenti amiche.”
“Credo a quello che so. Mirco. Credo al fatto che rientri sempre più tardi. Credo al fatto che frequenti tutti quei nuovi sobborghi. Credo che trascorri tutto il tuo tempo correndo dietro a ogni nuova gonnella che arriva in città e che ti senti in dovere di aiutare a integrarsi. In che modo poi, preferisco non immaginarlo. Credo che tu l’abbia sempre fatto, Mirco, nonostante le tue ripetute promesse, i tuoi spergiuri. Credo che tu sia la vergogna della nostra famiglia. Mi spiace solo di non poterti cacciare di casa. Definitivamente, intendo.”
Dopo la sfuriata i coniugi restano in silenzio per il tempo sufficiente al sole di superare l’orizzonte e proiettare ombre lunghe sulla piccola città.
Infine l’uomo si rimette in piedi e lentamente, mentre parla, cerca di riprendere un contegno, per lo meno negli abiti. “Quindi, devo considerare il fatto che non sono più il benvenuto tra queste mura. D’altronde non mi sono mai trovato veramente a mio agio, cara, in fondo questo è il piccolo palazzo d’inverno della tua famiglia, è vero, io qui sono solo un ospite, alfine, e a quanto pare non gradito. E’ vero, cara. Ho promesso molte volte di mantenere un contegno, come lo chiami tu. Ma vedi, data la situazione, non vedo quale contegno vi sia ancora da tenere. Tu piuttosto, quando la smetterai di vivere nel passato, legata alle vecchie abitudini, al tè delle cinque, alle visite obbligate di casa in casa, alla canasta settimanale, perfino alla messa della domenica. Questa città e i suoi abitanti sono stati dimenticati da Dio e a malapena gli uomini vi mettono piede, e solo se vi sono costretti. E questo lo sai.”
Un’ultima sistemata alla cravatta e l’uomo si dirige verso la porta, di nuovo sobrio, di nuovo sveglio.
“Hai ragione.” Risponde la donna con un filo di voce, appena prima prima che lui si richiuda la porta alle spalle. “Hai ragione. Sono caparbiamente legata alle mie abitudini. Perchè sono l’unica cosa che mi fa sentire viva.”

L’aria del mattino è fresca, frizzante. Mirco passeggia lentamente, le mani nelle tasche del soprabito e la mente finalmente libera da foschie alcoliche. Il chiarimento avuto con la moglie non cambierà certo la situazione, questo lo sa, ma per lo meno gli ha dato la scusa per uscire nuovamente di casa. Questa sera tornerà per cena, pensa. Le porterà un mazzo di fiori e si scuserà per l’ennesima volta, poi forse cercherà di comportarsi in maniera più consona.
Un passo dopo l’altro, Mirco abbandona il centro, con i suoi viali costellati da alberi antichi e le storiche ville nobiliari tutte diverse una dall’altra, costruite in un crescendo di orgoglio familiare e desiderio di immortalità. Cammina poi accanto ai casermoni popolari, attraversa i piccoli parchi voluti da amministrazioni ecologiste appena al di fuori dei confini della città originaria e prosegue nelle moderne zone ricavate dove prima era tutta campagna. Qui tutto è innovativo. Debora li chiama sobborghi, li disprezza, ma non ci si è mai recata. Le abitazioni sono integrate alla natura, un tutt’uno con i boschi, i laghetti e le radure che già esistevano. Sembra tutto più bello, più vivo. Non sa che giorno sia, da quando non lavora più ha perso la cognizione del tempo, ma in giro c’è un sacco di gente. Famiglie a passeggio, coppie che si tengono la mano, persone sole che come lui passeggiano in cerca di tranquillità. Una panchina lo accoglie e lì si perde a osservare il mondo. Forse si appisola, perchè quando riapre gli occhi si ritrova quasi solo, non fosse per un piccolo gruppo che poco distante sta terminando una cerimonia. Quando tutti se ne vanno resta una giovane donna, anche lei seduta su una panchina. Lo sguardo attento, curioso. Mirco non resiste, a dispetto di tutte le buone intenzioni. Si avvicina.
“Ben arrivata, signorina.”
“Grazie.” Risponde la donna, stupita che lui le rivolga la parola.
“Non si preoccupi, il senso di straniamento passerà in fretta.” La rassicura.
“Ok… E’ che… non me l’aspettavo… Lei chi è?”
“Mi permetta. Mirco Bergonzoni Chiaravalle.”
“Oh. Io mi chiamo Alessia. Alessia Palumbo. Lei è qui da molto?” Domanda lei riferendosi agli abiti ottocenteschi di lui.
“Abbastanza tempo da potermi permettere di farle da guida, signorina, se lei me lo permetterà, ovvio. Vivo nella parte antica, nelle cappelle di famiglia, in centro. Sa, quelle con i monumenti in pietra, i nomi scolpiti e tutto il resto. Beninteso, preferisco enormemente questo stile moderno e minimalista che usate ora voi giovani, un bel tappeto erboso… Ciò non di meno, sarò lieto di farle da Cicerone tra i monumenti del centro storico. Ma non si preoccupi, in questo nostro piccolo cimitero di provincia vi è anche modo di divertirsi, se si sa dove andare. E io, modestamente, lo so.”

14 Comments

  1. Ciao Walter, bellissimo racconto. La prima parte mi sembra una scena di film alla Loren e Mastroianni; la seconda mi ha ricordato un racconto che avevi scritto tempo fa di un uomo che non sapeva di esser morto. Buona domenica!

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  2. ciao. Perchè non mi arrivano le notifiche delle tue pubblicazioni? vado a vedere. oggi c’è un pò di luce. E’ stata un’estate oscura ma molto proficua..come al solito. Domani a Castagnole M. per il Ruchè:-)

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