#132 – La sedia

C’è un uomo nudo legato a una sedia.
È una sedia di metallo freddo e lucido, studiata per trattenere un essere umano nel modo più sicuro possibile. Sicuro perché non riesca a liberarsene, non perché non si faccia male.
Costruita da un fabbro accondiscendente che non si è posto molte domande se non quelle riguardanti come spendere il denaro ricavato dalla commessa.
Studiata perché l’uomo ad essa imprigionato non abbia mai la necessità di alzarsi, nemmeno per espletare le funzioni di base.
E in fronte alla sedia di metallo con l’uomo nudo e legato, ce n’è una di legno massiccio, di ottima fattura, dal corpo robusto anche se finemente intarsiato.
Costruita nella seconda metà dell’ottocento da qualche oscuro falegname che sapeva il fatto suo, fa parte di un gruppo di otto che da decenni accompagna un grande tavolo di legno altrettanto massiccio e robusto che ancora adesso occupa il posto d’onore nel salotto principale della casa di famiglia, insieme, appunto, alle altre sette sedie.
La sedia di ferro è inchiodata al pavimento di cemento della cantina e nonostante la sua storia sia molto più recente dell’antica sorella in legno, svolge ottimamente il compito per cui è stata progettata. L’uomo senza vestiti che suo malgrado la occupa ha provato in tutti i modi a romperla, incrinarla o indebolirla utilizzando tutto quello che aveva a disposizione, cioè solo il suo corpo, la forza dei muscoli bloccati da anelli d’acciaio saldati ai braccioli e alle gambe della sedia stessa.
Ma giorni, forse mesi di detenzione, perché ormai l’uomo ha perduto la cognizione del tempo, ne hanno indebolito la muscolatura, così come la volontà, e ora l’uomo si limita ad aspettare. Aspetta il momento in cui il suo carceriere apre la porta della cella, le cui pareti e il soffitto sono ricoperte di materiale fonoassorbente. E’ in base a queste visite che l’uomo nudo regola la sua nuova vita.
L’arrivo di Stecco. Così ha chiamato il suo carceriere, lo Stecco.
E’ anziano, alto, magro, quasi scheletrico, E quando si adagia sulla sedia di legno e resta immobile a fissarlo, quasi si confonde con l’ambiente, come un insetto stecco.
Stecco è uomo di poche parole. Non risponde alle domande che l’uomo gli rivolge ogni volta, tante di quelle volte da perderne il conto.
Sempre in silenzio, Stecco consuma ripetutamente gli stessi gesti.
Entra, pulisce il pavimento della cantina con un getto di acqua fredda, senza esimersi dal rivolgere il fiotto gelido anche all’uomo legato, facendo poi scivolare tutto in uno scarico, gli controlla le ferite da decubito e le piaghe su braccia e gambe limitandosi a una frettolosa e svogliata irrorazione di antisettico o dio sa quale altra sostanza bruciante.
Dopodiché somministra al suo nolente ospite una pappetta semiliquida che l’uomo sulla sedia ha imparato, con il tempo e con le dovute imposizioni di Stecco, ad apprezzare.
Infine, prima di andarsene e lasciare di nuovo solo per ore senza fine l’uomo nudo e legato alla sedia, Stecco si accomoda sulla sedia di legno e resta in contemplazione della sua preda, con un lieve sorriso triste a spezzargli la faccia lunga e altrimenti inespressiva.
Il gioco, se così lo si può chiamare, continua da molto, molto tempo. L’uomo nudo e incarcerato ha provato a calcolarlo, questo tempo. E basandosi sulla sensazione che ha della lunghezza della sua barba, perché non può vedersi vista la mancanza di specchi, è giunto alla conclusione di essere prigioniero da almeno tre mesi.
Ormai è abituato, l’uomo nudo e legato, alla pressione sull’osso sacro, alle natiche che probabilmente si stanno fondendo all’acciaio della sedia, al dolore alle articolazioni che non può muovere, al calore bruciante delle piaghe aperte, alle fitte che puntualmente gli spezzano il collo che fatica ormai a reggere il peso della testa, al puzzo di sangue e merda.
Ormai non si domanda quasi più come mai si trova in quella cantina fredda e sconosciuta. Quasi. Perché nonostante tutto riesce ancora a sognare durante il semi-perenne stato di dormiveglia in cui ormai è sprofondato. E nel sogno persone chiedono di lui, lo chiamano, ne piangono l’assenza.

La porta si apre ancora una volta, Stecco fa di nuovo la sua comparsa.
Questa volta però la procedura è diversa. Porta con sé un leggio di metallo, lo posiziona tra le due sedie in fronte all’uomo legato, vi adagia sopra un grande tablet acceso.
Da una tasca recupera una fotografia e la fissa al leggio con una piccola clip, accanto al tablet.
L’uomo nudo è attento, incuriosito dall’improvvisa novità. Osserva il tablet come se non avesse mai visto niente di simile, cerca di mettere a fuoco l’immagine nella fotografia, a fatica, visto che dei suoi occhiali non ha più avuto notizia dal giorno in cui è stato fatto prigioniero.
Stecco si defila contro una parete, a lato rispetto alla sedia di metallo e all’uomo imprigionatovi sopra. E per la prima volta inizia a parlare.
Racconta la storia di un uomo come tanti, di una gioventù scapestrata, a volte portata all’eccesso, di una maturazione e di una vita scivolata poi nei binari della normalità, della quotidianità.
L’uomo nudo bloccato alla sedia riconosce la sua storia nelle parole che prendono vita in quella voce bassa, antica e paziente.
Perché io, chiede, perché hai scelto me.
Ma Stecco non risponde e continua a raccontare. Ora la storia narra di una piccola creatura nata a fatica e sopravvissuta oltre ogni previsione. E queste ultime parole fanno rabbrividire l’uomo prigioniero. La piccola creatura cresce, si trasforma in una dolce bimba, in una splendida ragazza, promette grandi cose, diventa l’orgoglio dei genitori.
L’uomo nudo urla ora, trovando la forza di farlo in qualche antro nascosto in fondo ai suoi polmoni. Urla di lasciar stare sua figlia, prega piangendo di non toccarla, implora il suo carceriere di fare di lui quello che vuole ma di non far del male a sua figlia.
E mentre piange, sputa, prega, implora e bestemmia, Stecco abbandona la cantina prigione. Socchiude la porta e l’unica lampadina si spegne, lasciando la scena al tablet.
Lo schermo mostra un’immagine fissa. Un salotto. Sembra ripreso da una telecamera nascosta.
Per un tempo che non riesce a quantificare non succede nulla, poi un suono spezza il silenzio. E’ un campanello bitonale. Come successo pochi minuti prima con la voce del suo aguzzino, dopo mesi l’uomo ascolta un suono diverso dallo scroscio dell’acqua gelida e dai passi veloci e contati di Stecco. Il campanello è anche una speranza, la porta della stanza non è completamente chiusa, deve urlare, con tutta la forza che gli resta. Ma la porta si chiude con uno scatto mentre il campanello risuona ancora e questa volta l’uomo prigioniero accetta il fatto che il suono arrivi dal tablet e non dall’esterno del suo piccolo mondo.
L’immagine nello schermo si muove. L’uomo nudo non credeva di avere ancora la forza di urlare così violentemente. Ed è un urlo di disperazione, di terrore, che copre le parole provenienti dal tablet, parole pronunciate da una giovane donna che viene fatta accomodare nel salotto da Stecco. Una giovane donna che è la figlia dell’uomo nudo, legato e disperato.
Stecco e la ragazza parlano, ma l’uomo non sente quello che dicono, impegnato com’è a gridare alla figlia di andarsene, o di trovarlo, o di uccidere lo Stecco. Ma lei non lo sente, non lo può sentire, lui lo sa. E allora tace, adesso l’uomo. Tace e osserva Stecco che si avvicina alla telecamera, consapevole di essere osservato dal suo ospite incatenato, con un largo sorriso che non aveva mai sfoggiato prima. Si avvicina, fino a riempire tutto lo schermo, armeggia con qualcosa e poi si allontana, voltato, rivolto alla ragazza, ma in modo da mostrare al suo unico spettatore il martello che tiene tra le mani.
E l’uomo nudo legato alla sedia è ora convinto di non aver mai provato una rabbia, una paura e un dolore così immenso in vita sua. Tiene gli occhi sbarrati, anche se vorrebbe chiuderli, non si accorge di quanto stiano sanguinando i polsi, le braccia, le gambe, che con tutta la forza che resta loro cercano di spezzare il metallo ma che ottengono solo di rompere delle ossa.
Tiene gli occhi sbarrati, anche se dovrebbe chiuderli per liberarli dalle lacrime che gli impediscono di vedere chiaramente Stecco che solleva il martello alle spalle della ragazza che, ignara, sorseggia un the.
Il tablet emette un beep e si spegne. E si spegne anche l’uomo. Improvvisamente privato della visione di quello che sta accadendo a pochi metri da lui ma così infinitamente lontano.
E’ di nuovo silenzio. L’uomo evita perfino di respirare nella speranza di poter udire qualche suono provenire dal salotto.
Ma non arrivano rumori, parole, grida. Arriva però di nuovo la luce del piccolo schermo che riprende vita improvvisamente.
La scena sembra ferma, come una fotografia, non fosse per un leggero ondeggiare di una tenda rossa sullo sfondo. Ma il tessuto della tenda non è rosso. Il sangue è rosso. Il sangue è ovunque. Sulla tenda, sul pavimento, sui divani, sui mobili, ovunque, tranne che nel corpo della ragazza. Tranne che nel corpo inerte caduto a terra, in una posa innaturale e tragicamente poetica.
La lampadina torna a illuminare.
La porta si apre.
Stecco entra, ma l’uomo sulla sedia non lo guarda. Il suo sguardo è incollato all’immagine dello schermo.
Vuoto. Solo questo prova ora l’uomo. Un grande, immenso, infinito vuoto.
Il carceriere stacca la fotografia dal leggio e interrompe il collegamento tra gli occhi del padre e il corpo della figlia. La foto mostra una giovane donna, nell’atto di scattarsi un selfie in compagnia di altri ragazzi. E il momento in cui l’uomo sulla sedia riconosce se stesso in uno di quei volti non sfugge a Stecco.
Con un gesto rapido riattacca la fotografia al leggio e se ne va, silenzioso e veloce. Torna ai piani superiori, in salotto, si accomoda sul divano immacolato, si concede la prima sigaretta dopo anni, dopo quel voto fatto una vita prima, quella promessa che sta per mantenere.
Il salotto è pulito, profumato, le tende bianche sventolano nella brezza dell’estate, il sole illumina il pavimento, i divani, i mobili, ovunque. Nessuna giovane donna morta, nessun corpo a terra in posa innaturale.
L’uomo che assomiglia a un insetto stecco si gusta la sigaretta, compiacendosi della sua bravura nella computer graphic. Dalle finestre aperte può ancora vedere la figlia del suo prigioniero salire sul taxi chiamato poco prima.
Domani, forse dopodomani, tornerà in cantina dall’uomo che trent’anni prima ha violentato e ucciso la sua bambina, lo osserverà ancora per l’ultima volta, alimenterà il suo dolore, ne godrà e se ne nutrirà.
Poi lo ucciderà. Chiuderà la cantina e finalmente riporterà la sedia di legno assieme alle sue sette sorelle.

25 Comments

  1. Ciao e buona domenica.
    Sono sincera: questo racconto, tosto, denso, toccante non ha quel certo non so che che hanno altri, per me più belli, che hai scritto. Complimenti comunque.
    C’e Un film “x10”? Non ricordo il titolo dove un tipo rapisce una donna che ha ucciso la moglie e la rinchiude in una stanza di 10 x 10 piedi..u. Film che non mi è piaciuto e forse questo influenza il mio giudizio.

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          1. No… Non sapevo neanche chi fosse. Mi sono appena documentato. Devo confessare una grande ignoranza letteraria. Ho letto molto meno di quanto avrei voluto e tendo a dimenticare quello che leggo… Vorrei avere molto più tempo a disposizione… E più memoria, anche quella non guasterebbe…

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