Questa è la terza puntata. Per la prima clicca qui, per la seconda qui.
Dovrebbe essere facile aprire gli occhi.
Come bere un bicchier d’acqua.
Ma il dolore è talmente forte da convincermi a tenere ancora le palpebre abbassate. E l’ultima volta che ho bevuto dell’acqua è stato quando mi hanno battezzato. E per sbaglio.
Non sono ben sicuro di ricordare cosa sia successo. Anzi diciamo che al momento non me lo ricordo affatto.
Andiamo per gradi. L’unica certezza che ho, a parte l’esistenza degli alieni e che non sono mai riuscito a trovare dove vendono le noccioline di Super Pippo, è di essere legato.
Le mani dietro la schiena, le gambe bloccate in qualche modo. Per lo meno sono seduto su qualcosa di morbido, se il giroscopio nella mia testa non ha subito qualche danno dopo la botta. Sì, perché sono anche abbastanza sicuro di aver ricevuto una gran botta in testa a giudicare dai fulmini che mi balenano sotto le palpebre chiuse e dai tuoni che rimbalzano nella scatola cranica cercando disperatamente una via d’uscita.
Più che un Moment Act mi servirebbe una flebo di cortisone.
Visto che di aprire gli occhi ancora non se ne parla, meglio se mi concentro a cercare di ricordare come ci sono finito in una questa situazione imbarazzante.
Alberi, ora li rivedo, una fila ordinata di alberi lungo la strada.
Periferia della città. Era da così tanto tempo che non lasciavo la metropoli da non ricordare quanto fossero verdi gli alberi fuori dalle mura cittadine. Peccato che dove prima c’erano boschi e campi ora ci sono capannoni e centri commerciali. E soprattutto mobilifici. Diavolo quanti mobilifici. Migliaia di divani. Ma quanti divani servono a questo mondo?
E poi ricordo lei, la morettina. Appena entrato nel cortile del Mulino Bianco la vedo arrivarmi incontro, un sorriso cordiale e quell’espressione sul viso che sta a intendere che lei ha già la risposta per tutto, qualsiasi cosa io dica. Non male, mi dico, se non fosse per il look alla Jessica Fletcher e le paperine ai piedi che convincerebbero perfino John Holmes a vendere la moto e ritirarsi in un eremo tibetano.
“Buongiorno.” Esordisce, e che Dio mi strafulmini se non mi sembra di sentir parlare Heidi. Per un istante mi aspetto di veder comparire nonno e caprette. Ma non sono loro quelli che cerco.
Lei non mi lascia nemmeno il tempo di salutare che è già alla domanda successiva. “Cosa posso fare per lei?”
Sto per rispondere ma mi anticipa nuovamente. “Aspetti, lo so, vorrebbe una colazione sana e piena di gusto ma fatica a rinunciare allo zucchero? Non ci sono problemi, ho appena fatto dei biscotti senza zucchero buonissimi.”
Il tempo di schiudere appena le labbra per dirle che non voglio i suoi biscotti che lei continua. “No no, lo vedo che non è tipo da biscotti. Secondo me preferisce delle nastrine integrali. Lo sa che ho scoperto la farina integrale? Sì lo so, non me lo dica. La farina integrale esiste da prima di quella bianca. Il problema è che Giorgio, mio marito, la teneva nascosta in un contenitore polveroso nella mensola più alta del magazzino più vecchio, non è divertente?”
Alzo appena una mano nel vano tentativo di zittirla, ma niente. “Aspetti, forse ho capito, è qui perché ha sentito parlare delle mie meravigliose piadelle. Io l’avevo detto ai miei amici di non spargere troppo la voce, che poi non è che io da sola posso fare piadelle per tutto il mondo, capisce, sono solo io al forno, Giorgio è sempre occupato in giro a… a fare… beh ecco esattamente non lo so, ma è sicuramente molto impegnato, tanto che il mattino si sveglia prestissimo per mangiare tutte le fette biscottate da solo e poi sparire. Lo sa che faccio delle fette biscottate buonissime, sono più spesse delle altre, pure integrali, le faccio…”
Finalmente ho l’appiglio per zittirla senza arrivare a usare il taser che avevo già impugnato nella tasca dell’impermeabile. Grazie all’accenno alle fette biscottate che ricordo fossero un prodotto del padre, Antonio.
Ma appena le chiedo dove posso trovarlo, il visino sorridente da manga giapponese della piccola mugnaia si incrina. Le labbra prendono una piega drammatica manco fossero le quotazioni di IBM dopo l’entrata sul mercato di Microsoft e gli occhi promettono di risolvere il problema della siccità nel deserto del Sahara.
La piccola fornaia folle sparisce con la stessa velocità con cui si è presentata, lasciando sul posto solo una piccola nube di farina. Non integrale.
“La perdoni.” La voce mi arriva alle spalle ma non mi sorprende. Il caratteristico rumore del Land Rover arrivato mentre parlavo, cioè ascoltavo la donna, mi ha allertato.
Il tempo di voltarmi e un tizio che sembra la copia venuta male di Alberto Angela è già al mio fianco, dopo aver zampettato giù dal fuoristrada che, non vorrei sbagliarmi, dovrebbe essere il modello originale dello sceneggiato “I sopravvissuti” degli anni ’70.
“La perdoni,” ripete, “non è più la stessa dopo quello spiacevole episodio di suo padre.”
Il mio sguardo deve essere chiaramente interrogativo, visto che senza alcuna richiesta, quello che si presenta come il marito della psico-fornaia si mette a raccontarmi tutta la storia.
Una storia che narra di un vecchio attore di Hollywood sul viale del tramonto, del suo tentativo di reinventarsi un futuro dopo una serie di flop cinematografici, del piacere di scoprirsi mugnaio.
Una storia che sembra procedere bene all’inizio, fra compaesane adoranti che ingoiano qualsiasi cosa lui le propini e scolaresche in visita al Mulino nel tentativo di carpire il mistero di tanta morbidezza nelle sue focaccelle, salvo poi scoprire che si tratta di un additivo gelatinoso derivato dalle ossa delle carcasse degli animali macellati. Il bell’Antonio aveva anche quasi trovato una nuova compagna di vita in una stagionata donzella considerata da tutti la matta del paese, ma che a lui ispirava tanta simpatia, porella.
I problemi cominciarono con la comparsa nel mulino di Rosita, la gallina.
Da quel giorno il Banderas non fu più lo stesso. Cominciò a trattare la gallina come fosse una persona, le chiedeva consigli su come infornare i cornetti, sulla quantità di cioccolato da inserire nei biscotti, pretendeva che nessuno toccasse le sue uova. Lui e la gallina sparivano per giorni, salvo poi tornare spesso in condizioni pietose, sempre senza dare spiegazioni. Allontanò dal Mulino chiunque, finanche la stramba donzella e si chiuse in una sorta di solitudine forzata, solo lui e Rosita.
Quando la figlia Nicole e suo marito arrivarono per vedere cosa stesse succedendo, Antonio e Rosita erano definitivamente spariti.
“E quindi, da allora,” continua il bel tomo, “Io e Nicole gestiamo la baracca, qui. E ora mi scusi, devo andare a trovare due simpatiche sorelle che producono uno yogurt fenomenale, e non solo quello, non so se mi spiego… Vuole venire con me?”
A parte che lo yogurt mi procura un’acidità che poi neanche una vagonata di Maalox e una brigata di pompieri me la fa passare, diniego l’offerta, seppur con un filo di dispiacere.
I miei pensieri ora sono tutti per Rosita.
Mi domando come possa un uomo come Antonio aver sbarellato per una gallina. E mi domando dove sia finito ora. La Land Rover sta già sparendo dietro una nuvola di polvere e della mogliettina stordita non c’è traccia, per cui decido di dare un’occhiata in giro. Lo so, mi pagano per trovare il capitano Findus, non Antonio Banderas, ma l’istinto, il sesto senso, la vocina nella testa e il fiuto da poliziotto privato sono tutti lì a fare la ola e a sollevare uno striscione che dice Sei sulla pista giusta. Come faccio a non fidarmi?
Trovare le stanze private del Banderas non è stato oggettivamente un lavoro difficile. Sulla porta di legno è incisa una zeta e steso sul letto c’è un mantello nero e una mascherina. Se c’è uno tra voi maschietti che non si è mai vestito da Zorro a carnevale smetta di leggere e vada subito a porre rimedio. A parte una botta di nostalgia e la tentazione di provarmi il costume non mi sembra di vedere in giro nulla di strano.
In fondo, un nido di paglia e il poster di Galline in Fuga si possono trovare in ogni cameretta che si rispetti. Per il resto tutto sembra perfettamente in ordine e rassettato di recente. Probabilmente dalla figlia.
Sto quasi per andarmene quando noto due cose. Il modellino di una baita costruito con dei fiammiferi e un mucchietto di segatura vicino a una finestra, particolare questo che stona alacremente con la pulizia della stanza e mi ricorda qualcosa che però non riesco a focalizzare. Sollevo tra le mani la piccola baita e la studio con curiosità. I dettagli sono veramente curati, la piccola porta dell’ingresso si apre e, all’interno trovo un uovo e un indirizzo scritto a mano. E’ tutto quello che mi serve.
Qualcuno mi rifila uno strattone. Mi ritrovo di nuovo legato e con un gran mal di testa.
“Amigo, ¿estás bien?” La voce profonda di Antonio, alle mie spalle.
Mi sa che devo aprire gli occhi.
Lo faccio.
E quello che vedo non mi piace.
Questa avrebbe dovuto essere la puntata finale, ma mi sono fatto prendere la mano, scusate… Alla prossima con il Gran Finale di Stagione!
La copia venuta male di Alberto Angela 😂😂 è vero , non ci avevo pensato!
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Il taser sta diventando famoso in questo periodo…. 😜😜😜aspetto il finalone volentieriiiiii😄
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