Gino si sveglia e sorride perché si sveglia. La cosa già di per sé lo rende felice. La Vecchia Signora dovrà aspettare ancora per il loro rendez-vous. La giornata promette bene. Di solito fatica a dormire e si alza quando ancora il semaforo è incantato sulla luce gialla intermittente. Oggi invece ha dormito fino a tardi. Si solleva dalla panchina perfino con qualche dolore meno del solito, facendo volare via diversi fogli di giornale. Decisamente una buona giornata, nemmeno piove. Fa anche caldo per essere ancora mattino ma questo a Gino non importa. Che sia caldo o freddo, lui i suoi vestiti non se li toglie mai. Ormai ha sviluppato tutto un suo microclima sotto quegli innumerevoli strati di tessuto e la temperatura interna resta costante quale che sia il meteo. Al centro della Caritas la grassona responsabile c’ha provato a fargli fare una doccia. O anche solo a convincerlo a cambiarsi gli abiti. Gliene ha fatti vedere un sacco dentro a un cestone. Di tutte le misure e di tutti i colori. Scegli, gli ha detto, sono gratis non ti preoccupare. Ma lui niente. Fanculo anche a lei. Però la coperta gialla l’ha presa, quella sì, gli è piaciuto il colore. Quindi adesso raccoglie la sua nuova coperta, nuova si fa per dire, l’arrotola e la lega al resto della roba che tiene attaccata alla bicicletta. Per questo lo chiamano Gino, come Bartali, per via della bicicletta da corsa gialla. Che poi per capire che è una bicicletta ci vuole fantasia. Ne rimane visibile solo il tubo centrale, tutto il resto è ricoperto da cartoni e scatole e borse e sacchetti. Impossibile pedalarci, anche perché i pedali son spariti da tempo e il sellino forse non c’è mai stato. Tutto il presente di Gino è attaccato a quei tubi con le ruote. La vita passata non se la ricorda più nemmeno lui. Quella futura arriva fino a qualche secondo più avanti. Quello che ha voglia di fare in un dato momento, questo è il futuro per Gino. E quindi decide che adesso va a parlare con la nuova ragazza che lavora all’angolo opposto dell’incrocio. Non è la solita che c’era nei giorni scorsi, quella era nera e non gli stava simpatica, continuava a cantare stonata e urlava contro le auto. Disturbava pure lui, appellandolo con parole incomprensibili in qualche dialetto africano. Adesso invece c’è una ragazzina bianca e pallida, se sia italiana non lo sa, lei non parla e non guarda nemmeno le auto passare, sta con la testa bassa sul suo cellulare. Ha una criniera di capelli rossi che la fanno sembrare uscita da un manga giapponese e Gino pensa che non ha mai visto capelli così rossi e così strambi. Ma lei è carina. Molto carina. Gino è vecchio. Molto vecchio. Non tanto da non ricordarsi più cosa si fa con una donna, ma abbastanza per non saperlo, o volerlo, più fare. Guardando quella ragazza però Gino sente una voglia che non provava da tempo. Vorrebbe darle una carezza, una semplice carezza sul viso. Soldi non ne ha, perché non gli servono, però chissà, magari se le racconta una barzelletta, a lei che ha una faccia così seria, e riesce a farla ridere, poi magari se la lascia fare una carezza. In fondo è sempre stato bravo a raccontare le barzellette, soprattutto quelle sporche.
Nuova settimana, nuovo posto, nuovi clienti. Stessa solfa. Bella l’Italia. Tutta una periferia. Capannoni, uffici, incroci, semafori. Auto, furgoni, autocarri. E dentro un sacco di maiali. Che poi non ha capito perché dare del maiale a un uomo è un’offesa. A lei i maiali veri piacciono. A casa sua, a Ŝvirkale, ne aveva tanti. Anzi, sua madre ne ha ancora per quello che ne sa. Da bambina aveva dato un nome a tutti loro. E loro la riconoscevano. Animali intelligenti i maiali. Agneta è ancora convinta che sapessero parlare tra loro e quando si avvicinava per portargli da mangiare, sussurrassero il suo nome come per ringraziarla. Per questo ha smesso di mangiare carne di maiale. E ha litigato con i suoi perché continuavano a macellarli, nonostante gli avesse chiesto di smetterla. Chissà, se le avessero dato retta, forse lei non avrebbe seguito Julius e non avrebbe abbandonato la propria casa. Andiamo ai Caraibi, bella, ti faccio fare una vita di lusso, al caldo. Ah, beh, il caldo l’ha trovato. Tra i capannoni in Italia, nelle auto di quelli che pagano per togliersi le voglie che le loro donne non soddisfano. Quello stronzo di Julius, sparito il giorno dopo l’arrivo in Italia. Poi è arrivato Ivan, poi Salvo, poi… ma che importanza ha come si chiamano. Un pappone vale l’altro. Agneta vorrebbe ucciderli tutti. Ha anche pensato a come fare. Non è che sia difficile. Come faceva suo padre con i suoi amici maiali, un taglio alla gola, netto. Magari mentre la scopano. Oppure un proiettile in testa quando le fanno tenere in mano il loro cannone. Credono che lei non sappia usare una pistola? Sì, ma poi? Di finire in galera non ne ha voglia. Di tornare a casa non ne ha voglia. Di essere ammazzata non ne ha voglia. Soldi. Quella è la soluzione. Quelli servono per scappare, sparire. Non gliene lasciano abbastanza. Ma li sta mettendo da parte. Non è facile fregare il protettore di turno. Deve farlo piano piano, poco per volta, per non insospettire. Agneta è brava con i conti, aiutava anche sua madre in casa. Se continua a lavorare con un buon ritmo e accantonare allo stesso modo nel giro di tre, forse quattro anni, riuscirà a scappare abbastanza lontano da provare a rifarsi una vita. Magari con Karim. Lui è gentile. Dice che la ama e vuole aiutarla. Ma non ha un euro e non trova lavoro. E poi è un debole, ha paura del padre. Agneta non ha capito bene cosa sia il padre di Karim, sa solo che è un fanatico religioso e anche a lei non ispira molta fiducia. Un furgone passa e suona il clacson, lei nemmeno alza gli occhi da Instagram, tanto quelli che suonano non si fermano. Con la coda dell’occhio vede avvicinarsi il vecchio barbone che prima dormiva, un sorriso enorme e denti incredibilmente bianchi che contrastano con la puzza che lo anticipa. Ma con tutti i posti che ci sono, proprio qui dovevano piazzarla questa settimana? Mette via il telefono e prova ad adescare qualche cliente, se ha fortuna il tizio con la familiare che sta arrivando, la tira su.
La guarda anche se fa finta di non farlo, da dietro le lenti scure degli occhiali. La guarda e pensa che sia troppo giovane per stare su un marciapiede a vendere il proprio corpo. La guarda e inevitabilmente pensa a sua figlia che con molta probabilità ha la stessa età di quella ragazza arrivata da chissà quale paese dell’est Europa. I lineamenti del viso non lasciano spazio a dubbi, anche se i capelli sembrano arrivare direttamente da Tokio. Il semaforo sfoggia la sua luce gialla e Marco combatte per qualche istante tra la voglia di accelerare e il desiderio di frenare. Frena. La ragazza lo arpiona con lo sguardo e si avvicina all’auto, colpendolo con occhi tanto tristi quanto invitanti. Lui non può fare a meno di risponderle con un cenno che significa no, grazie. Anche se vorrebbe dire sì, grazie. Lo sa che è sbagliato, immorale, illegale, tutto quello che vuoi. Ma chissenefrega, per una volta, quasi quasi, ma no, no. Non lo farebbe mai. Non lo farà mai. E con che faccia tornerebbe a casa dalla moglie, dalla figlia. E poi, che idea squallida, vergognati si dice, tira dritto, lascia stare. La luce trasloca dal tondo rosso a quello verde, lo allontana dall’incrocio e dall’immagine della prostituta ragazzina. Quando ingrana la terza già non se ne ricorda più. Ora il pensiero rimbalza tra quello che l’aspetta in azienda e tutto quello che ne consegue. Il messaggio whatsapp del suo caporeparto arrivato qualche minuto prima non aiuta ad alleggerire il peso che preme sullo stomaco da troppo tempo ormai. Passa in ufficio prima di timbrare. Ovvio che non sono buone notizie. In fondo se lo aspettava da tanto. Sa cosa accadrà. Ne sente parlare di continuo, lo descrivono nei film, nelle canzoni, lo ha visto nelle facce di amici, conoscenti, colleghi. Guida in modo automatico fino al parcheggio, ormai con la mente che vola alla fine della giornata, a quando rientrando a casa dovrà trovare le parole. Dovrà trovare altre soluzioni per le giuste aspettative di una moglie e una figlia che, forse, faticheranno a capire. Un’auto gli taglia la strada, improvvisa e veloce, Marco impreca e sfoga nel suono del clacson tutta la sua inutile rabbia contro quella donna alla guida di un SUV che da solo gli pagherebbe il mutuo per almeno quattro anni.
Ma vai a cagare, sfigato. Tu e quel cesso di macchina che ti ritrovi. Questo non lo dice Elena, ma lo pensa. Un pensiero veloce, effimero. Non ha certo tempo da perdere per permettersi di dare precedenze a tutti quelli che incontra. Già è nervosa per dover essere venuta fino a lì. E poi è impegnata in una conversazione con la segretaria attraverso il sistema Connect del Suv. Non è in ritardo, ma guida comunque veloce, parla veloce. Deve spostare mille appuntamenti, riorganizzare la prossima settimana. Il tono di voce della segretaria la innervosisce, perché non parla chiaro? Cosa sono tutti quei giri di parole per dire che non riesce a trovare posto al Plaza di New York per lunedì? Che lo trovi e basta, mica può occuparsi di tutto lei, diamine. Con quello che la paga, quella approfittatrice di una segretaria, dovrebbe farsi in quattro per risolverle i contrattempi, e invece? Non so, provo a richiamarla e, scusi ho sbagliato… Solo a chiedere di avere il sabato libero è veloce, per il resto, che strazio. Dio, che voglia di mollare tutto e farsi una settimana a Bali. E invece le tocca la riunione del venerdì perché il socio/marito ha pensato bene di filarsela con gli amici a fare un cazzo di safari in Kenia. Almeno lo schiacciasse un elefante, quello stronzo, così potrebbe vendere tutto e trasferirsi a Los Angeles. Ma perché poi le riunioni devono per forza essere fatte il venerdì? Tutti presenti, Marketing, Amministrazione, Logistica. Li odia tutti, ovviamente, dal primo all’ultimo. Ogni volta che è costretta a recarsi nella sede dell’azienda di famiglia prova un senso di nausea per tutto il servilismo mescolato a disprezzo che le viene gettato addosso. Non riesce a togliersi di dosso la sensazione che tutta quella gente stia solo spremendo il sangue dalla sua azienda, ne stiano approfittando come sanguisughe pronte a staccarsi non appena smetta di esserci qualcosa da succhiare. Una mandria di falliti capaci solo di chiedere, un male necessario. Un cellulare squilla di nuovo, questa volta quello privato. Per prenderlo dalla borsetta si distrae il tanto che basta da non accorgersi per tempo del semaforo rosso. Quando succede inchioda, quasi nel mezzo dell’incrocio tra una selva di colpi di clacson. Non ci bada più di tanto, se vogliono passare, lo spazio c’è, basta che lo facciano, no? Risponde con la solita frase di rito che non ammette convenevoli, poi ascolta con attenzione, incredula. La voce maschile all’altro capo della linea si scusa, promette, cerca di farsi perdonare, chiama in causa eventi sfortunati e imprevedibili. Elena aspetta che finisca, mentre immagina la festa del diciottesimo di suo figlio senza il regalo che avrebbe dovuto occupare il posto d’onore nel prato davanti casa. Poi con il tono abituale di chi è uso a non farsi contraddire, risponde che l’indomani mattina VUOLE trovare la Mustang V8 GT che ha pagato nel cortile di casa sua. Chiude la chiamata e mentre riparte si domanda perché mai il mondo è così popolato da idioti.
Antonio resta con il telefono appoggiato all’orecchio per qualche secondo prima di rendersi conto che la conversazione è stata chiusa. Accenna perfino un “pronto” non convinto. Al fine si decide a lasciar scivolare il telefono nel taschino della giacca. Era l’ultima chiamata da fare. Alla sua migliore e peggiore cliente. Appoggia i gomiti alla scrivania e affonda il volto tra le mani, chiudendosi al mondo esterno, almeno per qualche istante che vorrebbe durasse in eterno. Ci ha provato, almeno su questo non ha da recriminare. Ha fatto tutto quello che poteva. O forse no. Forse avrebbe dovuto fare scelte diverse. Forse il giorno in cui quel tizio si è presentato in Concessionaria avrebbe dovuto mandarlo via. Ma non ne ha avuto il coraggio, o forse ha semplicemente pensato che era inutile, che si sarebbe ripresentato il giorno dopo. Magari dopo aver prima inviato un “messaggio”. Forse avrebbe dovuto denunciarlo subito. Ma le cose andavano bene, perché complicarle. In fondo la richiesta era minima. Una quota fissa, gli aveva detto quel tizio che si era presentato semplicemente come un amico, una specie di assicurazione contro atti vandalici. E nessun altro gli avrebbe mai dato fastidio. Forse non avrebbe dovuto accettare. Una stretta di mano, l’inizio della fine. Una quota fissa che ha il vizio di aumentare, un’auto per un amico dell’amico, per la nipote dell’amico, un posto di lavoro in officina per un ragazzo che “merita”, un socio nell’azienda di cui aveva assolutamente bisogno che non ha mai visto. Ad ogni obiezione un evento sfortunato. Una vettura danneggiata nell’esposizione esterna, furti nel magazzino ricambi, piccoli danni. Ora Antonio si alza. Prende il cellulare che si è rimesso a vibrare e lo deposita sulla scrivania. Poi lascia l’ufficio. Attraversa il salone ormai vuoto senza guardare in volto i suoi collaboratori. Oltrepassa quello che resta del garage, le pareti annerite dal fuoco illuminate dai lampeggianti delle autopompe dei Vigili del Fuoco e delle gazzelle dei Carabinieri. Una sequenza di scelte sbagliate. Soprattutto l’ultima. Un rifiuto, un rigurgito di onestà, una fiammata di orgoglio che hanno avuto come risultato un incendio devastante. Qualcuno lo chiama, o forse sta solo pronunciando il suo nome, Antonio non ci bada. Non ha più nulla da perdere ormai. Inizia a camminare, leggero come non si sentiva da tempo. Cammina e respira l’aria del mattino che non gli è mai sembrata così pulita, nonostante lo smog, forse perché nelle narici ha ancora l’odore di plastica bruciata. Cammina senza una meta precisa e osserva le persone che sfrecciano nelle auto, che si stringono negli autobus, che camminano veloci verso uffici o negozi o abitazioni. Ogni persona un volto, ogni volto una storia. Ogni storia una vita. Si ferma a un semaforo. Dall’altra parte un barbone appoggiato a una bicicletta stracarica di sacchetti parla con una puttana dai capelli rossi. Il clochard agita una mano mentre parla, sorridente e carismatico, mentre la ragazza fa di tutto per ignorarlo, guardando nella direzione opposta. Lui smette di parlare e per un lungo istante entrambi restano immobili. Lui con la bici gialla piena di sacchetti colorati e lei con una chioma di capelli rosso fuoco e un abito celeste.
Poi improvvisamente la ragazza scoppia a ridere, piegandosi sulle ginocchia, mentre il barbone saltella felice. Per qualche motivo a lui sconosciuto, anche Antonio sorride.
Bellissimo. Alla fine il barbone è quello che ha capito tutto. Meno sei attaccato ai beni materiali più sei attaccato a te stesso. E dipendendo solo da te sei anche con più facilità direttamente responsabile della tua felicità.
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ottima carrellata sulla realtà che ci circonda, orchestrata in modo fantastico… sembra di camminare in cerchio…
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Verissimo😀
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Fantastico Walter! Ero talmente dentro la lettura che ad un certo punto ho visto anche io il semaforo.
Bravo 👏👏👏
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Hai visto LA LUCE!!!
Gialla, verde o rossa?
Grazie 🤗🤗🤗
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Rossa! Ero ferma in attesa…
Grazie a te!
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Per un momento ho pensato a 21 grammi di Iñárritu, per fortuna che hanno sorriso alla fine! 🙂
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L’idea è partita tutta da quella risata. Mamma mia, 21 grammi molto bello, ma che tristura…
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A me è piaciuta l’idea è il titolo: Semaforo… quanta umanità passa e s’incrocia. Poi ci sono quelli che come il “barbone” (non amo questa parola, ma la uso per comodità) ha capito tutto di questa vita e sembra un antico saggio…
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Il titolo originale era Cinque, per via dei cinque personaggi. Ma non mi convinceva. Ci pensavo mentre scrivevo e poi, ovviamente, ho visto che la risposta era lì davanti, scritta. La figura del clochard (francesismo che aiuta a digerire il concetto) volontario (non per bisogno o disgrazia) mi affascina. Chissà che un giorno non decida si abbracciare questa filosofia…
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Conosco di persona molti senza fissa dimora, nessuno che l’abbia scelta veramente come vita, che è durissima, anche se tra di loro talvolta si formano alleanze. Altrimenti la legge è: “mors tua, vita mea”. Che poi è la stessa che in qualche modo regola in qualche modo la vita di tutti gli umani, con le dovute eccezioni.
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Sono assolutamente convinto che la vita di strada sia difficile, pericolosa e credo nella totalità dei casi non voluta. La figura del “barbone per scelta” rimane per l’appunto una figura quasi mitologica. Forse in alcuni casi nasce una sorta di accettazione che la rende un filo più tollerabile per chi la vive. Ma é solo l’opinione di uno che scrive per diletto, senza esperienza sul campo. Il detto vale senz’altro in ogni campo, purtroppo…
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Vite che si incrociano e sfiorano casualmente, problemi veri e creati, alla fine vince Bartali, che offre l’unica borraccia che ha alla prostituta, molto bello
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Grazie!
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