#82 – La nonna

Lo sguardo di Irene è calamitato dal cartello giallo che la tizia scostante tiene sotto braccio. Le lettere stampate sopra sono ben visibili, grandi e nere.
“Allora possiamo andare?” Le domanda la tizia.
Irene sgancia lo sguardo dalla parola “Vendesi” e annuisce. La giovane e sgradevole agente immobiliare non nasconde d’avere fretta. Raccoglie il mazzo di chiavi dal tavolo e si dirige veloce verso la porta. “Metterei uno di questi cartelli anche sul pianerottolo, se per lei va bene.” Lo chiede ma non aspetta risposta.
Irene la ignora, da tempo non ha più la preoccupazione di risultare simpatica e gentile con chi non le piace, sopratutto con una ragazzina che potrebbe essere sua figlia. Indugia ancora qualche minuto in salotto, ricordando un periodo di molti anni prima. Non è difficile farlo, tutto è rimasto come allora. Si domanda da dove le sia arrivato il bisogno di entrare un’ultima volta in quell’appartamento, a distanza di così tanti anni.
Dal pianerottolo arriva una voce, la piccola odiosa preme per andare.
Per Irene muovere il primo passo verso il corridoio sembra una fatica immane, una volta fatto, quelli successivi si trascinano per inerzia. Richiude la porta del salotto alle spalle.

Irene bambina percorreva i pochi metri che andavano dall’ascensore alla porta dell’appartamento con la stessa verve di un condannato a morte accompagnato al patibolo. Non le piaceva nulla di quella casa. Nulla dell’intero edificio. La portinaia che, non si sa esattamente quale fosse il suo superpotere, ogni volta che Irene e sua madre mettevano piede nell’androne del palazzo, spuntava fuori come un pupazzo a molla da qualsiasi pertugio, la guardiola, la porta dello sgabuzzino, la scala delle cantine, l’ascensore. Compariva perfino alle spalle, all’improvviso, come se le avesse seguite da fuori, dalla strada. A sua madre tanto presenzialismo della portinaia non sembrava dare fastidio, anzi, ogni volta ne tesseva le lodi. Quante volte mentre il vecchio e puzzolente ascensore le portava al piano, aveva sentito pronunciare la solita frase: “Per fortuna che in portineria c’è la signora Carmela.”
E poi l’ascensore. Quello di casa sua era nuovo, spazioso e con le porte che si aprivano e chiudevano da sole.  Questo invece aveva una porta di ferro pesante che bisognava tirare per entrare e poi altre due portine strette di legno e vetro che era necessario spingere. E per qualche motivo non si aprivano tutte e due insieme, o una o l’altra. Così Irene e la mamma dovettero imparare una coreografia complicatissima per potersi infilare insieme ai sacchetti della spesa senza continuare a aprire e chiudere porte. Il peggio però arrivava una volta dentro, quando Irene tratteneva il respiro ogni volta che mamma premeva il grosso bottone bianco con il numero tre, perché l’ascensore sembrava non voler partire. Poi all’improvviso quando non se l’aspettava più, la cabina cadeva giù di qualche centimetro prima di cominciare ad arrampicarsi a fatica con un rumore che faceva sembrare di stare nella pancia di un dinosauro con l’asma. Irene si sforzava con tutte le sue forze di non guardare verso l’alto, oltre il soffitto trasparente che mostrava le corde e le ruote che giravano e sollevavano la cabina. Ma poi cedeva e si ritrovava a fissarle timorosa. Una volta mamma le raccontò che quell’ascensore era già lì quando lei aveva la sua età, che anzi forse era già lì quando anche la nonna era giovane. Irene si domandava sempre se anche quelle corde nere e piene di polvere e grasso fossero così vecchie. Ma non ebbe mai il coraggio di porre la domanda.
L’odore della casa di nonna lo si sentiva appena fuori dall’infernale marchingegno. Irene pensava fosse qualche tipo di candela o roba così che tutti i nonni possedevano, evidentemente, perché anche in casa dei nonni della sua amica Martina si sentiva, uguale uguale.
Mamma non bussava mai, apriva la porta con la sua chiave e si precipitava dentro, forse perché a lei quell’odore non dava fastidio, o magari non lo sentiva, Irene invece si attardava qualche secondo, cercando di riempire il più possibile i polmoni di aria “delle scale” prima di varcare la soglia. Quando poi l’ascensore asmatico ripartiva con un forte scatto metallico, si fiondava dentro anche lei.
“Tesoro, vai a fare compagnia alla nonna, intanto che sistemo la spesa.” Era la seconda solita frase di mamma appena prima di sparire in cucina.
Trovava la nonna sempre in salotto, seduta al tavolo rotondo al centro della stanza, con la tv accesa e sintonizzata sul primo canale, che però non seguiva, perché sempre impegnata a leggere qualche rotocalco aiutandosi con la lente di ingrandimento che le aveva regalato Irene il Natale prima. Quando vedeva entrare la nipotina si illuminava, posava la lente e la rivista del momento, saltava giù dalla sedia, perché curiosamente quando la nonna era in piedi sembrava leggermente più bassa di quando stava seduta, e, per quanto le consentissero i due bastoni da passeggio, si precipitava ad abbracciarla.
Irene sopportava tutto con una pazienza lodevole per una ragazzina di dieci anni. Si lasciava stringere, baciare su tutte e due le guance e far finta che non le desse noia quel senso di umidiccio e di ruvido fastidio dovuto al neanche tanto piccolo porro peloso che la nonna si ostinava a non voler farsi togliere. Poi si rassegnava di buon grado a che le stirasse untuosamente i capelli con le mani, proferendo le parole di rito: “Tesorino della nonna, ma come ti sei fatta grande.”
Solo a quel punto Irene era relativamente libera di muoversi come credeva nel grande salotto.
Nonna tornava ad arrampicarsi sulla sedia aiutandosi con un piccolo poggiapiedi e poi aspettava che la nipote si sedesse di fronte a lei per rispondere alle sue domande.
Prima di tutto questo però per Irene c’era un premio speciale. Una cosa che poteva avere solo da nonna nella visita settimanale, e che sua mamma fingeva di tollerare. La bottiglietta di Coca Cola.
All’inizio Irene aspettava che fosse la nonna a dirle che poteva andarla a prendere nel mobile accanto alla nuova televisione a colori, poi col tempo la procedura si fece più fluida, e prima che la nonna finisse di sistemarsi nuovamente sulla sedia, Irene aveva già portato bottiglia e bicchiere sul tavolo.
Aveva perfino imparato a stapparla da sola e a versarla con un unico movimento, proprio come vedeva fare ai signori che lavoravano nei bar o nei ristoranti. Ne imitava perfino il rumore della schiuma che friggeva nel bicchiere, facendo sorridere la nonna.
Purtroppo il resto della visita per Irene tornava ad essere un momento noioso che sperava finisse alla svelta.
La voce della mamma in cucina elencava i prodotti che dai sacchetti della spesa finivano a occupare il loro posto in dispensa, senza che la nonna ci facesse realmente caso. Tutta la sua attenzione era rivolta alla nipotina. Un giorno le disse: “Irenina, adesso che sei grandicella voglio confidarti un segreto.”
Irene sorrise, stupita della novità. “Davvero nonna?”
La vecchina annuì vigorosamente. “Lo sai quanti anni ho?”
Dovette pensarci un attimo. Certamente conosceva l’età della nonna, però mamma le aveva raccomandato di non ricordarla in sua presenza, di solito suscettibile all’argomento.
“Settanta?” Disse, con un gran sorriso.
“Oh oh oh, magari fossi ancora così giovane,” rispose squillante la nonna e poi, abbassando la voce a poco più che un sussurro, “ne ho quasi novantadue!”
“Wow nonna, non li dimostri.”
“Adulatrice, la mia nipotina, vuoi altra cola?”
Irene ne fu tentata, ma il piccolo stomaco già soffriva gli effetti del gas, quindi fece segno di no, con la testa e con le mani, cercando di mantenere il sorriso e sperando che mamma finisse di sistemare le provviste e la raggiungesse. Ma poi sentì suonare il telefono in corridoio e la mamma rispondere, allora si arrese alla vecchia sedia di legno con la seduta e lo schienale imbottito. Mentre la nonna cominciava a raccontarle il suo segreto, Irene giocherellava con una delle vecchie borchie che reggevano il tessuto, facendola quasi saltare via per poi rimetterla al suo posto.
“Quando ero giovane giovane, avevo appena conosciuto il nonno, stavamo tornando a casa una sera, in macchina. All’improvviso un’altra auto che arrivava dalla parte opposta sbandò e ci volò letteralmente davanti. Un metro più in là e ci saremmo finiti addosso in pieno. Adesso non saremmo qui né io, né te.” Finita la frase la nonna annuì con aria greve, solenne. Irene restò impassibile, fuori gli occhioni teneri da bambina e dentro i pensieri strani che hanno i preadolescenti. Immaginava la nonna in un bagno di sangue tra le lamiere dell’auto, come un film visto da poco di nascosto.
“E quella fu la prima volta che ci andai vicino, sai? La seconda volta fu in treno. Ci fu un incidente e i vagoni deragliarono con una forza e una violenza incredibili. Lo sai che quella volta molte persone non riuscirono a sopravvivere? E io niente, nemmeno un graffio.”
La mamma comparve in salotto giusto il tempo di rassettare i cuscini del divano e controllare distrattamente la posta di una settimana abbandonata su una credenza. “Santo Dio mamma stai raccontando di tutte le volte che sei scampata alla morte? Non mi spaventare la bambina. Vado a prendere la roba da lavare in bagno.” E sparì, rapida.
La nonna continuò come se nulla fosse, mentre Irene con un orecchio la ascoltava e con l’altro cercava di seguire le pubblicità che scorrevano in televisione. E così, su immagini di doppi fustini di detersivo e uomini immersi nell’acqua fino al collo, nonna raccontò di quella volta in aereo, con l’accompagnamento di un condor spelacchiato e un gigante, nonna spiegò ancora come la guardia costiera l’avesse strappata alle onde, mentre una nobildonna vestita in giallo lamentava d’aver voglia di qualcosa di buono, la nonna mimò la valanga di neve e fango dalla quale si era salvata per un pelo.
La pubblicità finirono, il programma della domenica ricominciò e Irene si accorse che la nonna la stava fissando in modo anomalo.
“Mi sono convinta di una cosa.” Le disse con aria complice.
“Cosa nonna?”
“Ci deve essere un motivo se il buon Dio mi ha tenuta al mondo tutto questo tempo.”
“E quale sarebbe?” Chiese Irene, incuriosita dall’ultima frase della nonna, più che altro dal modo serio con cui l’aveva pronunciata.
“Sto cercando di scoprirlo, nipotina.”
“E me lo dirai appena lo scopri?”
La mamma ripiombò in salotto, già pronta per uscire, cappotto e borsa indossati. Abbracciò nonna di spalle con un movimento preciso e veloce. “Fatto tutto mamma. Allora ci vediamo settimana prossima, ok? Stai bene? Sì sì che stai bene. Dai Ire, andiamo che se no facciamo tardi a danza.”
Irene non se lo fece dire due volte. Salutò nonna e seguì mamma. Appena prima di uscire dal salotto lanciò un’ultima occhiata in direzione della vecchina, che non aveva smesso un momento di guardarla e che, appena prima di uscire dal suo campo visivo, le fece l’occhiolino.
Non ci fu un’altra visita settimanale. Irene non vide più sua nonna. Le dissero che era in un posto migliore, che era tornata a stare con il nonno e che insieme vivevano felici in Paradiso. Ma Irene non era più una bambina, sapeva che nonna era semplicemente morta, quello che non sapeva era perché proprio in quel momento. Forse la nonna aveva scoperto il motivo per cui Dio l’aveva salvata tutte le altre volte, per cui non aveva più motivo di restare. O forse aveva deciso di andare a chiederglielo di persona…
Non avrebbe più avuto quella risposta.
Solo di una cosa Irene era certa. Niente più Coca Cola senza sua nonna.

La porta del salotto si riapre. Irene rientra veloce, si ferma vicino al vecchio tavolo in mezzo alla stanza. L’agente immobiliare la raggiunge, infastidita, le rammenta di avere altri appuntamenti, che non era necessario tornare lì per consegnarle le chiavi, che poteva farlo in ufficio. Irene non l’ascolta, come non ascoltava la nonna quando le parlava, sembra migliaia di anni prima, in quella stessa stanza. Ha un solo pensiero, ora. Apre il mobile accanto alla vecchia televisione e il mondo balza indietro di quarant’anni. Irene prende la bottiglietta di Coca Cola come se si trattasse di una reliquia e la busta ingiallita che vi stava appoggiata contro con ancora più attenzione. Sulla busta legge il suo nome, scritto con la calligrafia antica della nonna.
La apre.
Ora Irene ha la sua risposta.

 

 

16 Comments

  1. Hai una capacità di coinvolgere e creare suspence che mi ha costretto a smettere di lavorare per finire di leggere l’articolo. Adesso mi toccherà recuperare stasera, te possino!
    (ma sapremo anche noi quello che ha saputo Irene? O in fondo basta sapere che lei ha saputo? buona giornata Walter!)

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    1. Caro Gio, spero non ti sia attardato troppo in ufficio… Davvero un bel complimento, grazie. (Irene è una privilegiata, a noi tocca scoprire tutto da soli. Mi piacerebbe poter dare una risposta, ma di queste non ne ho ancora trovate, se interessano, invece, di domande ne ho quante ne vuoi…)

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    1. Sono contento che questo racconto sia piaciuto. E’ una piccola storia nata da poco più di un pensiero forse destinato a non concretizzarsi. Poi come quasi sempre succede, quando le dita cominciano a ticchettare sulla tastiera tutto viene da sé. Grazie ancora per la lettura.

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        1. A dir la verità ne ho scritti tre… Ma è difficile trovare spazio e per l’auto-pubblicazione sono troppo pigro… Scherzi a parte, sì, ho tre volumi finiti nel classico cassetto ma che sospetto abbiamo necessità di una sistemata. La dimensione del racconto è senz’altro più “facile”. Comunque se hai tempo e voglia te li posso inviare, mi farebbe veramente piacere un tuo parere. Nel caso, puoi trovarmi qui: wcarrettoni@gmail.com (originalissima, eh?)

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  2. racconto ben strutturato (efficace il flashback centrale) e ben scritto (eh, non è una novità).
    è evidente che quella contenuta nella busta ingiallita è una “risposta confezionata su misura”, come sottolineato dal “sua” dell’ultima riga in chiusa, ovvero la risposta è significativa *solo* per la nonna e – forse – di riflesso per Irene. mica penserete che esista uno stesso “motivo universale” valido per l’umanità tutta?!?!?
    : )))
    ficcante e arguto come al solito, il buon Walter…
    : )
    in ogni caso, posso affermare con buona certezza avendolo letto di straforo nel messaggio contenuto dalla busta gialla, che il buon dio ha tenuto in vita la nonna tutto quel tempo per un semplice e logico motivo: perché potesse dare da bere alla nipote la Coca-Cola. come esplicitato a corpo testo, infatti, la bottiglietta di Coca-Cola era “una cosa che (Irene) poteva avere solo da nonna nella visita settimanale”. amen.

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