Scritto per La Taberna Simposiale – Speciale 3 Natale
Maria apre la porta nell’esatto momento in cui l’uomo all’esterno sta per infilare la chiave nella serratura. Così sia l’uomo sia la chiave restano immobili, colti di sorpresa, mentre al contrario la catenella che per anni ha tenuto il piccolo oggetto di metallo al sicuro attorno al collo continua a ondeggiare lentamente.
All’uomo non resta che sorridere con la malizia e la sfacciataggine cui è avvezzo. Con la sinistra sfila il berretto sportivo e accenna un piccolo saluto chinando il capo mentre con un movimento repentino della destra fa sparire chiave e catenella nel palmo della mano.
“Oh.” Si sorprende la donna. “Sei tu?!” Un’affermazione che suona come una domanda.
“Ciao Maria.” La stessa voce di quarant’anni prima. Non l’accento, nemmeno l’inflessione, ma la stessa voce.
“Alberto.”
Non servono altre parole. Maria si scosta di poco, quasi sparendo nella penombra all’interno. Alberto indugia solo qualche secondo, ripone il gomitolo metallico in uno dei tasconi dei pantaloni cargo e poi entra, divenendo improvvisamente rispettoso. “Non… non è cambiato molto.” Sussurra guardandosi intorno a testa bassa.
La donna annuisce mentre si sfila il cappotto e non molto convinta, scivola accanto all’uomo superandolo e facendo strada. “No, tuo fratello ha voluto mantenere… una certa tradizione di continuità.” Si ferma poi Maria, obbligando Alberto a fare lo stesso. Gli parla senza guardarlo in volto, con le mani che si trattengono a vicenda per non partire alla ricerca di altre. “Non ti aspettavamo. Non ti aspettava. Lo trovi nello studio di vostro padre. La sai la strada, no?”
“Sì, grazie.”
Maria sparisce in cucina, ragionando a voce alta sul preparare qualcosa da mangiare o simile, lasciando il cognato solo, nel vecchio corridoio.
Certo che ricorda la strada per lo studio. Il tempo dentro la casa è inciampato quattro decenni prima e non ha più avuto la forza di continuare. All’esterno invece ha lavorato. Ha cambiato il paese, le auto che corrono lungo la strada, più veloci e più grandi. Ha sostituito le insegne dei negozi nella via principale, più luminose e ammiccanti. Ha invecchiato le persone e ne ha fatte arrivare di nuove, colorate e distanti. Perfino le luminarie natalizie si sono evolute. Lampadine grassocce e poco luminose hanno lasciato spazio a file di minuscoli led sfavillanti.
Molti l’hanno visto arrivare a piedi fino a lì dalla stazione, qualcuno l’ha riconosciuto e ha mormorato qualcosa, qualcuno l’ha perfino salutato, per la maggior parte era solo un tipo che camminava.
All’interno della casa di famiglia nulla è cambiato. Perfino Maria è rimasta la stessa. Bella come quattro decadi prima, anche se in modo diverso, con la stessa scintilla negli occhi.
Lo studio del padre. Gli stessi libri che occupano un’intera parete, e molti altri nuovi che hanno preso possesso di un’altra grande libreria aggiunta alla precedente. Lo stesso piccolo albero di natale in plastica poco illuminato che occupa caparbiamente un angolo dello studio, unica concessione che papà concedeva a mamma durante le feste. La stessa vecchia scrivania, ricoperta da altri libri e le stesse vecchie poltrone rivolte alla vetrata che guarda a nord, dove da una parte le montagne dalla cima innevata riflettono la luce dell’ultimo sole che sta per rifugiarsi nel mare dal lato opposto.
“E’ ogni volta uno spettacolo meraviglioso.”
Alberto sussulta. Perfino la stessa voce di suo padre. Ma l’uomo che occupa una delle poltrone è il figlio di quell’uomo, suo fratello Giacomo, che si alza e tende le braccia, sorridente.
Ad Alberto non resta che fare i conti con quel tempo che fino a quel momento ha provato a ignorare, ma che ora in un solo istante gli presenta il conto, monetizzando un’intera vita nell’aspetto del fratello.
Un uomo magro e fragile. E soprattutto vecchio. Ma solamente, e questo è ciò che più lo turba, solamente di un anno in più in confronto a lui.
L’abbraccio è vero e profondo, di quelli che sanno di famiglia e affetto. Nessuna contesa da dirimere, nessuno screzio da allisciare, nessun vecchio rancore da dimenticare, solo una grande distanza da colmare.
Maria entra nello studio poco dopo, e trova i fratelli intenti a osservare l’ultimo spicchio di sole sciogliersi dietro l’orizzonte, accomodati sulle poltrone sopravissute a un’epoca passata, un’epoca in cui non erano poltrone ma vascelli pirata, astronavi o destrieri da combattimento per due giovani avventurieri dalla fantasia debordante.
La donna appoggia il vassoio con la consueta cena frugale sul tavolino basso davanti alle poltrone. Sa che il bricco di the aromatico e fumante sarà ignorato in favore di qualche più languida bottiglia di vino, ma lei se ne versa una tazza e si accoccola a sua volta sul divano rimasto libero, quasi sparendo dentro il suo enorme scialle ricamato. Senza dire una parola, senza mai posare lo sguardo su Alberto.
“E’ passato molto tempo.” Inizia Giacomo.
“Sì, anche se guardando il mondo da queste vetrate, adesso, sembra di no.”
“Le montagne non si sono spostate, fratello mio, e anche il mare che sembra non fermarsi mai, non ha lasciato questi luoghi.”
“Al contrario di me.”
“Non volevo dire questo.”
“Lo so, lo so.” Alberto scaccia il discorso con un gesto della mano. “Sei invecchiato sai?”
Giacomo sorride. “Ah, non so se in vita tua hai mai avuto modo di incontrare uno specchio, ma non è che tu sia rimasto un giovincello.”
Alberto non trattiene una risatina. “Sì in effetti, ma sai come si dice, l’importante è sentirsi giovani dentro. E poi invecchiando ho solo guadagnato in fascino.”
Sul divano il bozzolo di Maria si muove appena, emette un suono soffocato e poi torna a quietarsi. Il vapore del the risale da qualche meandro delle pieghe del tessuto.
Giacomo pare non farci caso, Alberto assume un tono di voce più grave. “Scusami Giacomo.”
“Di cosa?”
“D’averti abbandonato. Di essere sparito una notte di Natale di quarant’anni fa. Di non essermi fatto sentire, mai, in tutto questo tempo. Nemmeno alla morte di papà.”
“Non accetto le tue scuse. Non ce n’è nessun bisogno. Sapevo che non saresti rimasto. Lo sapevo fin da quando giocavamo su queste poltrone da piccoli.”
“Non capisco.”
“Ricordi? Eravamo pirati, avventurieri, astronauti e piloti di aerei da guerra. E un sacco di altre cose.”
“Sì certo lo ricordo…”
“Lo vedevo nei tuoi occhi che quelle avventure le volevi vivere davvero. Io te le narravo, le leggevo su questi vecchi libri che ora come allora ci circondano e poi te le raccontavo. Tu non avevi la pazienza di leggerle, ma eri bravo a tramutarle in gioco, dicevi che le volevi vivere, quelle storie, sul serio. E dimmi ora, lo hai fatto?”
Alberto non risponde subito, si prende il tempo di rivedere gli ultimi quarant’anni sotto questa nuova luce. Si prende il tempo di rendersi conto che il fratello non lo odia e non lo ha mai odiato. E poi si prende il tempo di raccontare. E il tempo prende le sue parole e le trasforma in immagini, in sensazioni, colori, suoni e profumi.
Giacomo ascolta e assorbe, mentre Maria si lascia cullare dal suono della voce di Alberto addormentandosi e le stelle fuori dalla vetrata compiono il loro girotondo, come sempre imperturbabili e indifferenti alle storie degli uomini.
E’ ormai l’alba quando il racconto di un’intera vita giunge al presente. La prima luce torna a disegnare il profilo nero delle montagne e a cacciar via le ultime stelle testarde.
Il the è ormai freddo nella teiera e la bottiglia che conteneva vino rosso giace poco distante priva del suo contenuto. Anche il divano è orfano di Maria e del suo enorme scialle.
Alberto ha terminato di raccontare e dopo aver prosciugato l’ultima ombra di vino dal bicchiere, conclude. “E adesso eccomi qui. Non chiedermi perché sono tornato. Non lo so. Forse ho solo seguito l’istinto, come un salmone che torna dove è nato prima di riprodursi e morire, ma direi che è un poco tardi per la prima faccenda, mentre per la seconda non ho nessuna fretta. E tu, Giacomo? Sei soddisfatto della tua vita? Non ti sei mai mosso da qui, a quanto vedo. Da questa casa, da questo studio e da tutti questi polverosi blocchi di carta rilegata. Potevi seguire gli affari di famiglia anche da qualche altra parte.”
Giacomo si alza dalla poltrona con una lentezza che tradisce tutti gli anni che porta addosso, si avvicina al fratello e con delicatezza gli aggiusta qualche pacca sulla spalla. “Vedi, caro fratello, lascia che ti dica una cosa che credo d’aver capito. Mi hai raccontato una vita così piena di avventure da restare a bocca aperta, e devo ammettere che, anche fatta la tara di tutto quello che hai detto, resta comunque un bel bagaglio di esperienze. E ora dimmi, cosa ti resta? Di tutto quello che hai vissuto, cosa ti resta?”
“Che intendi dire?”
“In pratica, di tangibile, cosa ti resta?”
“Ricordi. I ricordi.”
“Esatto, ricordi, immagini nella memoria. Quasi gli stessi che ho io, dopo averli sentiti raccontare da te in maniera cosi vivida e precisa. Ricordi e immagini di una vita che si vanno ad aggiungere all’enorme baule di altri ricordi, immagini, sensazioni, profumi che ho assorbito da tutti i libri che vedi attorno a te, in questo studio, in questa casa.”
“Ma non è la stessa cosa…”
“Tu dici? E come lo sai? Sei tornato perché nonostante tutto ciò che hai vissuto sei sempre alla ricerca di qualcosa, Alberto. Qualcosa che non ti basta una vita per scoprire. Qualcosa che, forse, per poterlo trovare avresti necessità di vivere centinaia, migliaia di altre esistenze. Io le ho trovate tutte quelle vite, tutte qui dentro.”
Giacomo poggia un pacchetto regalo sulle gambe del fratello, si china a baciarlo sulla fronte e poi esce dallo studio, accompagnandosi col bastone da passeggio.
Alberto resta solo nello studio, mentre la luce del giorno rende tutto più vivido e fa ammutolire le piccole luci del piccolo albero di natale. Lentamente Alberto toglie la decorazione dal pacchetto e lo scarta, rompendo la carta resa fragile dal tempo, rivelando un libro intonso che ha aspettato quel momento da anni.
Con le dita ne accarezza il dorso, ne legge il titolo, mentre una lacrima si fa strada tra le rughe del volto.