#48 – Il fotografo

Ci vuole pazienza, un buon occhio e la giusta prospettiva.
L’importante è non attirare l’attenzione. I soggetti non devono accorgersi d’essere inquadrati. Se solo sospettassero la sua presenza si farebbero guardinghi, muovendosi con ansia, con fretta, rovinando l’effetto, l’inquadratura.
Estrae la macchina dalla valigetta imbottita che ha assemblato di persona, su misura. Esattamente come la fotocamera d’altronde. Il teleobiettivo invece gli è appena stato consegnato da Amazon. Lo soppesa ancora una volta prima di applicarlo al corpo macchina. Sfiora con un dito i numeri stampati sulle corone, scruta in controluce le lenti. Gli regala un ultimo delicato soffio d’aria appena prima di agganciarlo.
Macchina e obiettivo ora sono una cosa sola, due parti distinte che separate non hanno uno scopo, ma che si completano a vicenda. Il cavalletto è già pronto. Impensabile da quella distanza scattare fotografie senza. La tensione emotiva non gli permetterebbe di mantenere la mano ferma quanto necessario.
Gli scatti metallici degli agganci sono musica per lui, come suoni di strumenti che vengono accordati appena prima della sinfonia, paragonabile allo scatto dell’otturatore.
Il parcheggio di un centro commerciale regala sempre le maggiori soddisfazioni.
Purtroppo non potrà utilizzare questa riserva di caccia ancora a lungo, ma per oggi può ancora azzardare. In fondo è sufficientemente lontano e occultato da risultare pressoché invisibile.
Inizia l’attesa. Studia le prede al loro arrivo. La maggior parte di esse sono madri che hanno appena lasciato i figli a scuola. Parcheggiano e entrano in maniera sbrigativa, qualcuna ormai ha imparato a conoscersi, si scambiano saluti. Lui le studia attraverso le lenti del teleobiettivo. Le segue nella breve camminata che le vede sparire fagocitate dalle porte scorrevoli. Nei momenti più ispirati ad alcune ha perfino affibbiato un nome, altre le identifica semplicemente associando loro il modello dell’auto con la quale arrivano.
L’attesa si protrae, ma lui non ha fretta. Ha imparato, come ogni buon predatore, ad aspettare la preda perfetta.
L’ha chiamata Eva.
Guida una Seat Leon nera. Parcheggia quasi sempre nello spazio riservato ai portatori di handicap, pur non avendone evidentemente diritto di persona, ma il tagliando ben visibile sul parabrezza dell’auto glielo permette. E’ sempre veloce, frettolosa. Esce dall’auto senza esitazioni e percorre i pochi passi che la separano dall’ingresso quasi con una furia rabbiosa, altera. E’ questo che lo ha fatto decidere. Una preda difficile. Più volte è stato sul punto di scattare, ma ha sempre desistito all’ultimo istante, non convinto. Non può permettersi errori, non con lei. Il fuoco deve essere perfetto. Un solo scatto. Questa è la sfida.

Eccola, arriva finalmente. Oggi la fortuna arride al fotografo. I posti riservati sono già occupati, così come quelli limitrofi. La Leon nera è costretta a proseguire e fermarsi più lontano dall’ingresso, al di qua degli isolotti dei carrelli. Visuale ottima e libera da ostacoli.
Lei scende,  altezzosa come sempre. I capelli ramati ondeggiano nella luce del mattino, con un gesto consumato porta la borsa alla spalla sinistra, con la destra attiva il telecomando per chiudere l’auto mentre già cammina veloce verso il centro commerciale. Camicia bianca, gonna corta nera, stivali, incedere da passerella d’alta moda. Il fotografo la segue, passo dopo passo, quasi incapace di resistere a premere il pulsante. Quanto ancora dovrà aspettare?

Il volto non tradisce alcuna emozione, ma le mani tremano. E’ un tremore leggero, quasi impercettibile. Deve smettere di armeggiare con il treppiede per rendersene conto. Quasi non lo vede il tremore, ma lo sente a livello epidermico, e non solo sulle mani, in ogni parte del corpo. Lo stomaco chiuso, quasi un senso di nausea. Un brivido gelato parte dalla nuca e scende lungo la schiena. Si impone la calma. Ormai è fatta. Non può più tornare indietro. Ha scattato.
Per un solo secondo, prima di ricominciare a sistemare metodicamente l’attrezzatura nelle borse, ripercorre i momenti che hanno preceduto la decisione. Si era distratto, maledizione. Una sola volta aveva distolto lo sguardo e tanto era bastato a fargli perdere il momento della sua ricomparsa. Il tempo di riprendere l’inquadratura che lei oramai si trovava di fronte all’auto già aperta. Convinto che sarebbe stata l’ennesima giornata persa si stava limitando a osservarla, seguirla nei movimenti fino al momento in cui l’auto sarebbe sfilata dal parcheggio.
Ma d’improvviso erano accaduti una serie di fortunati eventi. Lei che si ferma prima di salire in auto, armeggia con la borsa e risponde a una chiamata sul cellulare. Sorride, annuisce e si mette in ascolto, sollevando lo sguardo verso il cielo, nell’esatto momento in cui il sole si libera da una nuvola e la investe di luce.
E in quel momento perfetto il fotografo si accorge di non avere il dito sul pulsante. Quando riesce a premerlo non è più sicuro di niente. Né della luce, né della messa a fuoco, né di ogni altra possibile impostazione a cui ripensa in continuazione mentre guida nervosamente verso l’ufficio. La fotocamera progettata e costruita pazientemente con una cura certosina riposa nella borsa imbottita. L’ha spenta subito dopo aver scattato, per non essere tentato di riosservare la foto sul display. E’ un’operazione da compiere a casa, con tutta la calma che necessita.
Il resto della giornata è solo una snervante attesa. Le pratiche in ufficio, le chiacchiere dei colleghi, le news dei notiziari radio mentre torna a casa, tutto gli scorre attorno senza penetrarlo, permeato com’è dall’unico pensiero di quello scatto. Resta un ultimo ostacolo da superare prima di poter sapere la verità.

“Sei arrivato? Guarda che hanno consegnato un bidone di roba questa mattina.” Il tono di voce del padre non può essere ignorato come tutto il resto. Presagisce la solita tiritera.
“Oh bene.” Si limita a rispondere.
“Se tu fossi stato a casa invece di andare sempre in giro la mattina presto… ma si può sapere dove che vai sempre che lavori solo il pomeriggio? Mi lasci sempre qui da solo, lo sai che al mattino ho bisogno di aiuto. E poi si può sapere che cacchio c’é in quel bidone?”
“Niente, acidi per lo sviluppo.”
“Da dove diavolo arrivano? Non sono riuscito a capire la lingua dell’etichetta.”
“L’ho trovato su internet.” E poi, dopo una pausa, “costava poco, era un affare.”
L’anziano genitore gli si piazza davanti, deciso a non farlo proseguire verso il retro della villetta a schiera in cui abitano. “Di questo dobbiamo parlare. Ora la cena è pronta. Mangiamo, poi con calma mi dici QUANTO CAZZO TI MANCA a finire la tua invenzione, e soprattutto QUANTO CAZZO STAI SPENDENDO per costruirla!”

La camera oscura è pronta. Il bagno di sviluppo è a temperatura e concentrazione ottimali. Il nuovo acido proteico appena consegnato sembra perfetto, nonostante la provenienza alquanto discutibile. Ma ormai il fotografo non può più badare a certe sottigliezze, le remore morali le ha accantonate da un pezzo. Sfibrato dall’ultima discussione appena sostenuta con il padre, si prende il tempo di rilassarsi prima di procedere. Lui lo ha tempestato con le solite lamentele su quanto il progetto stia costando troppo, lo ha denigrato quando ha tentato per l’ennesima volta di convincerlo che non ci sarebbe voluto ancora molto, che era vicino alla conclusione e poi il brevetto li avrebbe resi ricchi, ma il padre non aveva voluto sentire ragioni, recriminando su quanto fosse una delusione come figlio e minacciando di tagliare i fondi e cacciarlo di casa, se necessario.
Scorre la lista dei brani musicali sullo smartphone e seleziona una delle playlist da lui compilate. Musica adatta a riempire il silenzio ma che non disturba il flusso dei pensieri, anzi che semmai lo agevola.
Finalmente, con tutta la teatralità che il momento impone, sfodera la macchina e la depone sulla base da scrivania, collegata direttamente al computer. Sullo schermo compare la lista dei file immagine scattati quella mattina. Solo l’ultimo è quello che realmente lo interessa.
Apre il primo. Una posa di prova, solo per valutare distanza e illuminazione. Raffigura un vecchio che pulisce gli occhiali da vista prima di scendere dall’auto. Non perfettamente a fuoco.
La elimina.
La seconda foto è di una donna di mezza età, fasciata in una tuta di acrilico e impegnata a bruciare i chili di troppo facendo finta di correre. Immagine mossa.
La elimina.
Poi  un ragazzo appena sceso da un furgone e un’altra giovane donna intenta a sistemarsi il trucco prima di entrare al lavoro. Fotografie buone ma non eccellenti.
Le elimina.
Resta l’ultima.
Esita parecchi secondi prima di cliccare sopra l’icona del file. Quando l’immagine compare sullo schermo ad altissima definizione il fotografo non riesce a trattenersi. Lascia che l’ansia dell’attesa e la gioia per il risultato si abbraccino per sgorgare in un fiume di lacrime.
E’ tutto perfetto. Posa, inquadratura, luce, e soprattutto lei, il soggetto. Non vi è bisogno di alcun ritocco, anche se fosse possibile eseguirli, cosa che non è. Ingrandisce l’immagine fino a poter vedere i pori sulla pelle della donna. La risoluzione è praticamente infinita.
Resta solo una cosa da fare. Apre il menu Stampa e seleziona Sviluppo.

La musica dev’essere finita da un pezzo quando il fotografo riapre gli occhi. Sfinito dall’emozione si è appisolato sulla piccola brandina a fianco della camera oscura. Un’occhiata al timer sullo schermo lo riporta immediatamente alla realtà, lo sviluppo è terminato. In un unico movimento scatta in piedi e abbassa la maniglia della porta.
Il corpo della donna è sdraiato nella vasca di generazione.
Perfetto in ogni dettaglio, reale, vivo. Il respiro è leggero, ma presente.
Tutto il liquido e le altre sostante generative che componevano il bagno di sviluppo si sono conglomerate a formare questo nuovo essere vivente, copia perfetta del soggetto fotografato.
Dopo un tempo che sembra infinito passato ad ammirare la sua creazione, il fotografo sobbalza quando lei apre gli occhi e lo guarda.
La voce femminile è tranquilla e curiosa. “Ciao, tu chi sei?”
Lui esala un sospiro, coprendosi la bocca con la mano. Trattiene la risata che preme sulla gola e le accarezza i capelli ancora umidi. Anche il software di programmazione mentale ha funzionato. “Buongiorno cara. Io sono…”

I pochi metri che separano il garage laboratorio dal corpo principale della villetta li percorre come in preda a un sogno meraviglioso, dal quale non ha intenzione di svegliarsi. Appena varca la soglia della porta sul retro i suoni provenienti dal televisore gli dicono che il padre si trova in salotto. Il programma  preferito di lui snocciola casi di cronaca nera con la stessa naturalezza con cui si annuncia che il giorno dopo probabilmente pioverà. La voce del giornalista presentatore diventa sempre più chiara man mano che il fotografo si avvicina.

…e rimangono ancora misteriose le cause della sparizione di cinque persone dal parcheggio di un noto centro commerciale del capoluogo. Gli inquirenti indagano su una possibile messincena ma non si escludono altre ipotesi. Unico fatto sicuro è il ritrovamento di tutti gli abiti degli scomparsi nel punto esatto in cui sono stati visti per l’ultima volta. Non sono ancora stati resi noti i particolari emersi dall’esame delle telecamere di sicurezza, ma alcune voci confermano che ci si trova di fronte a eventi molto particolari… 

L’anziano padre si accorge di lui solo dopo qualche istante. Lo osserva mentre lui ascolta la voce melodrammatica dell’opinionista di turno che declama la sua teoria su un possibile rapimento alieno, subito sbeffeggiato dal criminologo residente in studio.
“Che hai?” Domanda il padre. “Hai una faccia strana. Non stai bene? Quella brodaglia che hai preso su internet era tossica?”
Il fotografo si volta verso l’uomo, con quel mezzo sorriso che non riesce più a togliersi di dosso. Mentre parla regola le impostazioni della macchina fotografica in base alla luce dell’ambiente, settando l’eliminazione immediata automatica dello scatto.
“Tutto benissimo, papà. Sorridi.”

Dedicato a mio fratello, fotografo per passione.

DSC_0111

Per inciso, lui e papà in realtà vanno molto d’accordo…

13 Comments

  1. Bella, mi è piaciuta molto, l’ho letta tutta d’un fiato, lo sviluppo in camera oscura sembrava qualcosa di demodé ma c’era la sorpresa… potrebbe essere molto comoda quella macchina fotografica! Alla fine ho anche sospettato che il fotografo avesse immaginato tutto ed in realtà avesse rapito le persone, ma con lo scatto finale mi hai convinto del tutto.

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  2. bello. gli indiani temevano che una fotografia gli catturasse l’anima (o almeno così narrano i western hollywoodiani…) e a giudicare dal fotografo/scienziato pazzo di questo racconto gli sceneggiatori a stelle e strisce avevano ragione! anzi, qui il furto è tanto spirituale quanto molecolare (a proposito, direi che l’inventore è un idealista: non era meglio prenotare un bel viaggio in Cina, dove viene stampato l’euro e poi passare per Maranello? col portafoglio pieno e una Ferrari sotto il culo, le donne sarebbero arrivate “a ruota”, viceversa per fare un po’ di soldi così gli tocca rinunciare all’esclusiva e fare il magnaccia)
    : )))
    deduco però, dal fatto che gli indumenti sono rimasti sul luogo della scomparsa, che s’attribuisce una consistenza atomica/molecolare diversa alla materia vivente e a quella non vivente, cosa che – se non sono troppo cacaziretto – mi piacerebbe che tu mi spiegassi. valgono anche formule inventate, tipo (mv + x)^3 + (a^2+y)! = mc
    : )

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  3. Io sapevo che per fare un essere vivente bisognava comporre una formula chimica che prevedeva una commistione tra il basanato di minch@@@@ e il patatato follipico e a volte veniva la reazione che era la generazione di un essere che per i primi sei mesi mangia e scarica .
    Cmq un bel racconto e con un buon finale… se ti servisse proprio una formula
    https://10sigarette.wordpress.com/2012/06/06/elaborazione-quantistica/
    Buona serata

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