Apre la porta come ogni sera quando rientra dopo cena. Silenziosamente.
Si ferma sulla soglia dopo averla richiusa nello stesso attento modo e resta in attesa.
Il discreto silenzio che l’accoglie potrebbe sembrare foriero di buone notizie, ma ha imparato a non illudersi. Scivola quindi lungo il corridoio al pari di come l’ombra del conte Vlad scivola sulle pareti, diretto verso lo studio, ma all’altezza del salone deve pagar dazio.
“Sei rientrato?”
La domanda è naturalmente retorica e la risposta non può che adattarsi. “Sì cara.”
La porta dello studio lo attira ancora con un’energia gravitazionale simile a quella di un buco nero dal quale lui vorrebbe lasciarsi catturare, ma la voce della moglie lo ha ormai arpionato trascinandolo suo malgrado verso la Pequod, tra le braccia di Achab.
“Ti devo parlare.” Continua lei.
La donna occupa una delle comode poltrone di fronte al grande camino, in cui arde un fuoco sapientemente strutturato. Dev’essere merito del padre di lei, che probabilmente ora è in attesa da qualche parte nella casa.
Prima di ribattere, lui versa tre dita di un cognac profondamente ambrato e aromatico, ne beve una buona metà e poi si accomoda davanti al fuoco, dandole le spalle.
“Un gran bel fuoco.” Esordisce.
Lei non raccoglie. “Com’è andata la giornata?”
“E’ la serata delle domande retoriche? Credo tu lo sappia già benissimo.”
“Vorrei che me ne parlassi tu.”
“E a che servirebbe?” Finisce il cognac e si sposta al mobile bar per versarsene ancora. “Tanto hai già la tua versione, la tua convinzione. O forse dovrei dire quella di tuo padre.”
Lei cambia l’ordine di accavallo delle gambe e cerca di lisciare una piega ribelle nella gonna. “Quindi non vuoi parlare in tua difesa?”
Lui torna di fronte al fuoco, che in punto laterale comincia a dare segni di cedimento. Se il caro suocero fosse presente si precipiterebbe a sistemarlo. Resiste alla tentazione di rimestarlo al solo scopo di peggiorare la combustione. “Da cosa devo difendermi?”
Lei si alza, esasperata nei movimenti e nella voce. “Maledizione, smettiamola con questa farsa. Sai benissimo che mio padre…”
Lui si volta di scatto, facendo rovesciare parecchio del suo cognac nel fuoco e ravvivandolo nonostante i suoi intenti contrari. Nella voce tutta la rabbia trattenuta da mesi. “Tuo padre ti ha già raccontato tutto, lo so. Non ha potuto esimersi dall’informarmi che l’avrebbe fatto non appena ti avesse vista.”
“Almeno lui mi tiene al corrente delle tue scorribande con quella ignobile accozzaglia di bruti che ti ostini a frequentare.”
“Sono miei amici, oltre che cugini, cara, e almeno loro mi trattano per quello che sono, non per quello che tu vorresti che io fossi. O meglio, che il tuo paparino vorrebbe.”
“Ora lascia fuori mio padre da questa storia.”
“E come posso farlo? Come posso lasciar fuori il re di questa casa dalle nostre vite? Qui tutto pende dai suoi fili, ogni cosa è sotto il suo controllo, non si muove foglia senza che sua maestà lo venga a sapere.”
Lei abbassa la voce, donandole una sfumatura ancora più rabbiosa. “E nonostante questo tu continui a perseverare in questo tuo comportamento irresponsabile? Ma non pensi al nostro futuro? Ai nostri figli?”
Lui sorride, finisce il cognac e si asciuga ostentatamente le labbra col dorso della mano, adeguando a sua volta la voce a poco più che un sussurro. “I nostri figli vivono in un mondo dorato creato da te e dal tuo immenso e claustrofobico genitore in cui neanche si ricordano che IO sono il loro padre.”
Un ceppo nel camino scoppietta rumorosamente, liberando scintille e piccole meteore incandescenti che si spandono intorno. Lei si ritrae di scatto, sollevando l’ampia gonna a balze per il timore che una di quelle piccole faville la possa rovinare.
Lui la osserva con un’espressione che passa dalla rabbia all’indifferenza, passando per il disgusto. Torna al mobile bar e si serve direttamente dalla bottiglia, valutando ormai inutile l’intermediazione del bicchiere. Parla senza voltarsi. “Avrei dovuto lasciarti dov’eri, dieci anni fa. In quella fetida e spersa prigione dorata della Torre dei Draghi. Se non fosse stato per me, avresti trascorso lì il resto della tua vita, lontana dal padre che ora osanni ma che non aveva il coraggio di affrontare quella stupida bestia sputafuoco che ti teneva prigioniera. Ma eri una Principessa, allora, non la strega che sei diventata adesso.”
Lui si toglie il cappello piumato, il mantello azzurro e butta tutto nel fuoco. “E vissero tutti felici e contenti, certo, se becco quell’idiota che l’ha detto…”
#43 – Dieci anni dopo

bell’atmosfera da sfavola (il camino acceso fa sempre la sua porca figura)
: )))
mi piace l’idea del dopo che “sbugiarda” il luogo comune, di rabbia-disgusto-indifferenza che riemergono con prepotenza dopo la sbornia amorosa, accompagnando il disamore con la sbornia vera. un dire pane al pane e vino al vino reso mirabilmente dal passaggio “si serve direttamente dalla bottiglia, valutando ormai inutile l’intermediazione del bicchiere”.
(direi “perseverare” vs “perpertrare in questo tuo comportamento irresponsabile”)
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Grazie del commento e del suggerimento. Scrivere a tarda notte non aiuta…
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Te ne sei accorto che c’è un refuso? “Sabbia” al posto di “sappia”. Poi direi “faville” piuttosto che “braci”.
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Grazie prof. 😉
Corretto e revisionato!
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Porca miseria sono stata prof pure oggi che è il mio giorno libero! Deformazione professionale. Non avertene, talvolta i prof sono un po’ pedanti nonostante i nick giocosi con cui si mascherano. 🙂
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Ah, ah, dura la vita dei principi azzurri! Da qualche parte però dovrebbe esserci ancora uno stock di mele avvelenate…
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