“Se ne è andato?” Chiede il figlio.
“Chi tesoro?” Rimanda la madre con aria assente. Le mani sferruzzano veloci l’uncinetto.
“L’uomo delle consegne.”
“Oh, sì tesoro.”
“Ha portato notizie di papà?”
La madre esita a rispondere, dondola un poco il capo e le labbra restano socchiuse quel tanto di troppo. “Oh sicuro, scusami caro, stavo per dirtelo, papà ha mandato sue notizie. Tutto bene, il viaggio di lavoro prosegue senza intoppi.” Lo sferruzzare non dà segno di rallentare.
Il figlio annuisce giocherellando con la tazza di the fumante. Vorrebbe sorridere, ma qualcosa s’ inceppa.
La madre lascia maglia e ferri sul tavolo e si alza di scatto, prende la sua tazza quasi vuota e si porta all’acquaio, dando le spalle a Isaac.
“Mamma?”
“Sì caro?” Senza voltarsi.
Isaac parla con la calma di chi ha già preparato le parole. “Ho delle domande.” La madre chiude il rubinetto e torna lentamente a sedersi, asciugando le mani sul grembiule legato in vita. Il the di Isaac ha smesso di fumare e lui fa scivolare la tazza verso il centro del tavolo.
La madre aspetta, paziente, che lui chieda. Riprende i ferri e lentamente ricomincia da dove aveva lasciato.
“I tuoi capelli, mamma. Stanno diventando bianchi.”
Lei annuisce, un mezzo sorriso si disegna e sparisce in un attimo. “Davvero?”
“Io… ho un ricordo diverso del loro colore. Nero. Giusto?”
La madre valuta l’idea di contraddirlo. No caro, vorrebbe dirgli, sono sempre stati così. Sbaglia un punto dell’uncinetto, lo riprende e lo aggiusta, poi ne sbaglia ancora. Smette nervosa e abbandona l’opera sulle ginocchia, sapendo che non l’avrebbe mai più ripresa.
Alza lo sguardo e incontra quello del figlio, fisso e speranzoso di risposte.
“Tuo padre me lo spiegava sempre, sai? Dovevo ascoltarlo con più attenzione.”
Isaac inclina leggermente la testa verso destra. La madre sorride nel notarlo.
“Che cosa ti spiegava?”
La donna sospira mentre si sfila una sottile collana che trattiene un pendente ovale. Lo apre con delicatezza mentre gli occhi si inumidiscono, lo avvicina al figlio, lasciandolo sul bianco legno lucido del tavolo.
Una piccola foto ad alta definizione di un uomo e una donna occupa un lato. Quella di Isaac l’altro.
“Era già molto apprezzato nel suo ambiente quando ci siamo incontrati. Non eravamo più tanto giovani. Il più grande ed eclettico inventore del secolo e una ricercatrice part-time.” Fa una pausa. “Tu sei nato subito.” Ride sommessamente, forse rivedendo vecchie immagini nella memoria. “Ma lui era impegnatissimo nel suo ennesimo progetto. Ti crebbi io.”
Isaac registra un nota di risentimento nella voce materna. Cerca di ricordare la sua infanzia, cerca di riconoscere i suoi genitori in quella piccola fotografia. Concentrandosi riaffiorano momenti, istanti. Ma sua madre continua a raccontare, deve ascoltarla.
“Tornava tardi dal laboratorio, a volte non rientrava affatto. Così una sera decisi che saremmo andati a trovarlo. Una sorpresa, pensai. Ma non arrivammo mai. L’incidente fu colpa mia. Io non lo ricordo, mi hanno detto più tardi che stavo usando il cellulare e non ho visto il semaforo rosso.”
Isaac si concentra per ricordare, abbassa lo sguardo concentrandosi su un angolo della cucina con il solo risultato di pensare a un piccolo cane grigio che dorme sopra una copertina. Ma che ora non c’è.
“Dopo l’incidente tuo padre ha lasciato tutto, il suo lavoro, le sue ricerche. Ci siamo rinchiusi qui. La nostra casa, la nostra fortezza.”
Ora la madre si alza, strofina le mani sul grembiule e poi incrocia le braccia portandosi verso la finestra e guardando il parco privato che circonda la casa. “Ha continuato a lavorare qui.”
Anche Isaac si alza e con calma si avvicina alla donna. Le parole affiorano da sole, supportate da ricordi e ragionamenti che fino a poco prima non era in grado di fare. “Nella stanza in cima alle scale? Quella con la porta sempre chiusa a chiave?”
Perché non ha mai pensato prima a quella stanza?
La donna sospira rassegnata, si volta e gli accarezza il volto. Da una piega della gonna estrae una chiave.
La camera è luminosa degli ultimi raggi del sole che trattiene quanto possibile per colorare di arancione il bianco delle pareti e dei candidi arredi. La donna che poco prima ha aperto la porta ora è quasi sparita in un angolo spoglio, nascosta perfino all’ultima luce.
Isaac è in piedi, immobile, tra apparecchiature a lui sconosciute che ronzano e lampeggiano. Ma non sono queste a interessarlo. C’è qualcosa che assomiglia a una grossa incubatrice, moderna e funzionale, da ospedale.
“Mi sono svegliata dopo parecchi giorni. Tuo padre mi era accanto. Non disse nulla, se non quello che avremmo fatto. Ti abbiamo portato a casa, curato e accudito con amore. Avevi dodici anni, ma perdesti la memoria.”
“Da quanto?”
La donna non risponde. Isaac ripete la domanda. “Da quanto è successo?”
“Trent’anni.”
Isaac si avvicina all’incubatrice e a ciò che contiene.
“Tuo padre riuscì a risvegliarti, almeno in parte, contro tutte le convinzioni dei suoi colleghi. Ma tu non ci ricordavi, dovemmo insegnarti tutto di nuovo, raccontarti, farci amare. Funzionò all’inizio, poi prendendo coscienza dell’accaduto ti ribellasti, cominciasti a odiarci, a odiare me, per quello che avevo fatto, per l’incidente.”
Isaac si volta verso la madre, ricorda ora, come un fiume che rompe gli argini la memoria torna nitida, precisa, reale.
“Tuo padre cercò di convincermi che non poteva funzionare, che non potevamo costringerti in qualcosa che non sei. Ma io non volevo perderti di nuovo. Lo convinsi a modificare la tua memoria. Era bravo in questo. E tu per un po’ tornavi ad essere il mio amato e amorevole piccolo. Me lo diceva sempre, che avrei dovuto imparare anch’io a farlo.”
“Dov’è ora lui?”
“Un infarto, due mesi fa.”
Viene il silenzio mentre la luce arancio lascia il posto al buio illuminato solo dai led dei macchinari.
La donna è immobile nel suo angolo, nascosta nell’oscurità, singhiozza piano. Isaac le si avvicina. Sì, ha ragione lei, la odia. Allunga una braccio, potrebbe porre fine alla sua vita di menzogne con poco, molto poco. Lo sguardo di lei è rassegnato, ormai in attesa.
C’é una cosa che attira l’attenzione del ragazzo. Uno specchio. L’unico presente in tutta la casa. Isaac si osserva, il piccolo led verde sulla fronte che pulsa sincrono a quello sull’incubatrice. Torna sui suoi passi lentamente. “Trent’anni, Susan. Trent’anni. Avresti dovuto lasciarmi andare prima. Addio.”
La stanza è immersa nel buio e nel silenzio ora, se non fosse per il respiro pesante di una donna ormai sola. Le mancano le forze per uscire da quell’angolo di pareti e di dolore. Ringrazia il sole per essere tramontato e la luna per essere latitante, così non è costretta a vedere ciò che resta di suo figlio nell’incubatrice ormai spenta. Così non è costretta a vedere la meravigliosa e fragile macchina costruita dal marito trent’anni prima, quell’androide a forma di bambino dodicenne, ora spento e privo della mente che lo sosteneva, la mano destra per sempre chiusa sull’interruttore di spegnimento delle macchine che trattenevano in vita il cervello e quel poco altro di colui che un tempo era stato Isaac Calvin.
immagine tratta dal web
Avvincente, col giusto finale triste… molto attuale, in questi giorni di discussioni sul senso della vita… accanimento terapeutico, una medicina che varca tutti i limiti… difensori della vita a tutti i costi… si, proprio un bel racconto, di come l’amore quanto possa essere egoista, a volte…
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E la realtà supera di gran lunga la fantasia. Grazie.
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