Annalisa chiude la porta e vi resta appoggiata con tutto il corpo. Sorride ancora, l’ultimo amico appena uscito le ha regalato una scia di allegria e spensieratezza. Peccato che Annalisa non riesca a trattenerla. Ci prova, con le unghie che graffiano il legno della porta e i denti che si rifiutano di scomparire dietro le labbra. Ma non è abbastanza forte, non lo è mai. Ora cammina lenta verso il grande divano, esattamente nel centro di quel piccolo appartamento che è stato il sogno di una vita e in cui finalmente ha realizzato un nido accogliente, che i suoi amici le invidiano e in cui fanno a gara per passare le serate. Annalisa piange silenziosa mentre finisce l’ultimo bicchiere e si lascia cadere tra i cuscini, ancora saturi dei profumi degli altri, mentre il programma notturno della radio inanella vecchie canzoni noiose. Non riesce a essere felice e non sa il perché. Piange da sola, sempre solo quando è sola. Le lacrime poi finiscono e le resta solo il vuoto nello stomaco che si riempie di angoscia. Si risolleva e mette in ordine il salotto con gesti automatici, per pensare a qualcosa di reale, di concreto. Concentrarsi su un bicchiere, su un piatto, aiuta. Il cellulare si anima da qualche parte nell’appartamento e mostra un nome e un numero, poi si riaddormenta. Annalisa non risponde mai a quel numero, a quel nome, anche se a volte vorrebbe disperatamente farlo. Ha paura che quel nome non possa capire. In radio parte una vecchia canzone che non ricordava di ricordare. Si ferma, un posacenere in mano e un sacchetto azzurro nell’altra. Per qualche ragione il vuoto si restringe mentre le parole riemergono con naturalezza, e comincia a cantare leggera.
Giorgio si arrampica su per la vecchia scala a pioli lasciata lì dal nonno. Il padre di suo nonno l’aveva costruita da ragazzo. Un ottimo legno, sicuramente. Arrivato sul tetto piano della casa si lascia cadere sulla sdraio portata via da una spiaggia chissà quante estati prima, e osserva. Oltre le tegole del paese vecchio, oltre i palazzi nuovi sul fondo, il mare respira enorme nel tramonto. Giorgio apre la prima delle sei birre che si è portato. Quando le avrà finite tornerà giù. Il tempo necessario per eseguire l’operazione è variabile, con ogni probabilità il sole sarà già stato oscurato da tempo dalle montagne alle sue spalle. Pensa a tante cose Giorgio, mentre beve e guarda il mare. Pensa a una promessa che ha fatto e non ha mantenuto. Pensa alla sua bambina che anni prima ha scelto di non diventare mai donna e che ieri si è dimenticato di ricordare. Solo oggi il ricordo è riaffiorato, e lui è sprofondato. L’ha profanata, delusa, lasciata morire di nuovo. L’aveva pensata ogni giorno fino a ieri anche se non è mai riuscito a entrare in quel cimitero. Non si permetteva di vivere al di fuori del suo ricordo fino a quando quel ricordo ha deciso, anche se solo per un giorno, di non vivere dentro di lui. Quello che lo spaventa è che accadrà di nuovo, che lo voglia o no. Ci sarà un altro intero giorno in cui non la ricorderà e forse un altro ancora, e così poi il dolore e la colpa torneranno ancora più forti. Forse di birre ne doveva portare di più. Forse prima o poi quella maledetta scala cederà. È buio, da qualche parte qualcuno accende una radio. Parte quella canzone. Giorgio non la conosce, ma ne ripete le parole in un sussurro.
Andrea si sveglia ma vorrebbe continuare a dormire. In bagno non si guarda allo specchio, le pustole sul viso non ha bisogno di vederle, le sente. Inforca le cuffie enormi e tira il lungo ciuffo davanti alla faccia. La musica aiuta a non far sentire il mondo e i capelli a non far vedere quelli che il mondo lo abitano impunemente. La scuola è ormai solo un inferno pubblico che deve attraversare, i commenti feroci dei suoi compagni aguzzini una tassa da pagare per poter tornare a casa. La casa che è un inferno privato dove la madre ascolta ma non sente, il padre non vuole ascoltare però vuole che stia a sentire, la sorella vive in un mondo parallelo. La sua migliore amica si chiama lametta, ma è vecchia ormai, dovrebbe cambiarla visto che la sua carezza non è più fredda e silenziosa, ma bruciante e stridente. Le cicatrici sulle braccia tormentate lo testimoniano. Andrea sa che è sbagliato, sa che non va fatto, ma sa che non riesce a smettere. Quando si risveglia non è nel suo letto, nella sua casa, e non vuole continuare a dormire. Ha ancora i lunghi capelli sul volto, attraverso i quali distingue la flebo appesa al supporto, il liquido che scandisce il tempo nel gocciolatore, l’odore di disinfettante e ospedale, avverte il dolore bruciante sotto le fasciature sui polsi. Qualcuno, forse sua madre, deve avergli appoggiato le cuffie sulle orecchie, con la sua musica preferita. Una canzone gli risuona dentro.
Con un movimento molto lento, Andrea sposta i capelli dagli occhi. Non vede l’ora di tornare a scuola.
Annalisa pensa che domani proverà a non piangere. E farà una telefonata.
Giorgio andrà a trovare la sua eterna bambina. E smetterà di sopravvivere. Cercherà di vivere.
Spero che non ti dispiaccia se ti suggerisco una variante: “La madre sente ma non ascolta”.
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Non mi dispiace, anzi grazie per l’attenta lettura! Stavo per correggere poi mi son detto che in questo modo rende dì più ciò che voglio dire. La madre in effetti “ascolta”, apparentemente con attenzione, ma non “sente” (afferra)dentro di sé le parole…
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tre affreschi chirurgici e potenti, ma lo sforzo tridimensionale si sgonfia nelle 2+2+2 righe di chiusa. non so, forse mi sfugge qualcosa (in tal caso chiedo venia), ma in caso contrario proverei a sviluppare un po’ di più il finale.
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