Il suo momento preferito è senz’altro il risveglio.
Qualsiasi risveglio.
Quello del mattino presto di un giorno qualunque, nel quale poi doversi recare al lavoro.
Quello del mattino tardo di un giorno festivo, nel quale poi avere tempo per dedicarsi a lei.
Quello del pomeriggio dopo un breve riposo, o quello della notte fonda popolata da incubi.
E’ il suo momento favorito, perché la trova accanto, sempre.
E’ la gioia del risveglio, come il titolo di una vecchia canzone quasi dimenticata.
Allungare una mano e toccare la sua presenza, stringerla e avvertirne il fragrante tepore.
Gli è difficile identificare quale sia l’aroma che lei abbandona ovunque nella casa. E’ buono, e tanto basta.
Lei sembra ancora dormire mentre le accarezza i capelli, invece poi mormora qualcosa e si muove leggera, ma forse sta ancora sognando, magari di loro, almeno questo è quello che lui si augura.
Un lieve beep lo avverte che non può più indugiare oltre. Un giorno qualunque, di doveri e routine. Vorrebbe non fosse così.
Un bacio tra i capelli e lascia la camera da letto.
Poi la colazione sfrigola in padella e l’acqua scroscia nella doccia.
Lui sorride finendo di apparecchiare la zona pranzo e assaporando il momento in cui lei entrerà vestita soltanto dell’accappatoio e potrà godere di ciò che le ha preparato.
Eccola finalmente, si ferma, spalanca gli occhi e sul suo viso si disegna quell’espressione di bambina meravigliata che lui non si stanca mai di osservare, ogni volta.
“Ciao piccola.”
“Bonjour. Che meraviglia tesoro, grazie.”
Intorno a una catena di montaggio le parole non riescono a rimanere attaccate tra loro, le frasi si spezzano. Al contrario dei prodotti che prendono vita un pezzo dopo l’altro, mentre le mani si spostano meccanicamente in gesti sempre uguali. Per lo meno è lavoro, non è il massimo, ma è lavoro. Aiuta molto il pensiero che alla fine del turno potrà tornare da lei. Il rituale quasi sacro della catena lo porta a contatto col compagno di lavoro ogni trentasette secondi. Per quattro secondi. Troppi, se le parole che viaggiano in quel tempo ristretto non sono quelle giuste.
La sirena suona. Il nastro trasportatore si ferma esattamente per quarantacinque secondi, il tempo necessario alla sostituzione del turno di personale.
Il tragitto fino all’appartamento è veloce. Un corridoio curvo, un ascensore, un altro curvo corridoio, la porta. Lavorare e abitare nello stesso palazzo fa guadagnare tempo.
Oggi però ogni passo sembra litigare con la forza di gravità. La gravità delle mezze frasi riportate.
Sente un odore che non gli piace. È l’odore della gelosia, della rabbia. Plastica bruciata e grasso di frittura annichilito. Cerca di concentrarsi sul profumo di lei, che non riesce ancora a identificare. Eccolo, più si avvicina alla porta più lo sente. Lei è lì, lo sa. Lo aspetta. Quello che ha sentito di sotto non può essere vero.
Un piede messo male, forse una piega nella vecchia moquette incolore dei corridoi.
Perde l’equilibrio quasi andando a sbattere contro la parete. Qualcuno lo aiuta a non cadere. Un grazie e un prego partono in modalità automatica. Riesce a voltarsi in tempo solo per vedere l’uomo di spalle sparire nell’ascensore.
Plastica bruciata.
Spalanca la porta.
Mandarino. Ecco qual è il suo aroma.
Lei è sdraiata sul divano, la tv accesa. Un programma che lei detesta. È ancora in accappatoio.
Un’icona arancione compare sullo schermo 14. L’addetto non la nota subito, impegnato a osservare lo schermo 9.
Chi era? Chiede lui. Chi? Risponde lei.
Un copione consolidato, replicato infinite volte su innumerevoli palcoscenici. Mandato in onda anche in terza serata.
Lui si agita per l’appartamento, cercando prove. Il tavolo della colazione è ancora apparecchiato.
Cosa hai fatto fino ad ora? Non mi sentivo bene. Abbastanza bene per vedere quello stronzo però!
Ma di chi stai parlando? Lo sanno tutti di chi sto parlando! Tutti chi?
Lui urla, sbatte i pugni, tazzine di caffè quasi vuote cadono a terra. Bicchieri si rompono.
Lui accusa, senza prove, lei nega, disperata e incredula. Scuote il capo e agita i capelli.
Mandarino, mandarino.
L’accappatoio scivola e rivela una spalla nuda. Un luccichio trasparente, niente di più. Lui non lo vede o non lo vuole vedere.
Lei muove per andarsene ma lui l’afferra per un braccio, geme, le fa male.
L’icona arancione sullo schermo 14 diventa rossa e comincia a produrre una serie di bip, cercando di farsi notare. L’addetto di turno deve a malincuore svestire la parte di voyeur sullo schermo 9 e prestarle attenzione.
Lei cambia strategia, lo abbraccia, cercando di calmarlo, lui la spinge via.
“Ti prego,” dice lei, “stavamo andando così bene. Siamo felici ora.”
Lui rallenta, riflette, si scusa. Forse non è mandarino, forse è arancia verde.
Il caffè ha macchiato l’accappatoio, così cerca di pulirle la macchia, poi desiste e si china a raccogliere i cocci di vetro.
“Io, scusa ho sentito, delle voci…”.
Lei arretra e si stringe, braccia conserte sulla difensiva. “Quali voci? Lo sai che di questo devo parlarne a Paul.”
Lui lascia ricadere i pezzi del bicchiere. No, no, non vuole sentir parlare di Paul.
“Allora era lui quello nel corridoio. Paul.”
L’addetto sa cosa fare. Silenzia l’icona d’allarme e inoltra una richiesta di intervento.
“Paul non deve immischiarsi nella mia vita. Nella nostra vita. Non ha nulla a che fare con noi. Ci siamo io e te. E basta.”
“Certo, ci siamo solo io e te, infatti vorrei che restasse così. Ma ora calmati, ti prego. Senti, andiamo di là…”
“No che non andiamo di là. Ora tu ti vesti e usciamo da questa casa. Insieme.”
“Cosa? Ma sei impazzito? Come facciamo a usci…”
Lei non finisce la frase. Forse non doveva alzare la voce, forse non doveva parlare di Paul. Forse non doveva contraddirlo. Forse quella mattina avrebbe dovuto continuare a dormire.
Lui la colpisce. Voleva essere uno schiaffo, ma il pezzo di bicchiere rotto rimasto tra le dita e un movimento improvviso di lei lo hanno trasformato in un colpo letale alla gola.
Lei si stringe le mani al collo e a lui si stringe il cuore nel vedere ancora una volta la sua espressione da bambina meravigliata. Cade come un sacco di piume, lentamente, i capelli si sollevano mentre va giù e l’acre odore del sangue si mescola all’agre odore di mandarino.
Lui vorrebbe che ci fosse un modo per tornare al momento del risveglio.
Vorrebbe ricominciare la giornata. Non è possibile.
Non ci sarà più nessuna gioia nel risveglio. Meglio allora che non ci siano più risvegli.
Trovano la porta spalancata. Non ci sarebbe stato comunque bisogno di sfondarla. La squadra di intervento possiede le chiavi di ogni appartamento.
Il sorvegliante anziano entra per primo, teaser in mano pronto a colpire. Il novellino lo segue esitante. Primo giorno di lavoro e già un intervento. Ma se lo aspettava, lo avevano avvertito, visto che il programma è ancora in fase sperimentale e i necessari interventi di regolazione ancora frequenti.
Questa volta però non è rimasto nulla da regolare. L’uomo lo trovano al tavolo della cucina, riverso sul quello che resta della colazione. Un affilato coltello giapponese nel cuore.
Non c’è necessità di controllare il resto dell’appartamento. Non c’è nessun altro. Il sorvegliante anziano chiede istruzioni a voce alta e ascolta la risposta nell’auricolare.
Il novellino lo osserva, chiaramente intimorito, occhi e orecchie in attesa di risposte.
“Oh cristo,” esclama il collega, notando la sua espressione, “chi ti ha spedito qui? Quelli dell’interinale?”
Il ragazzo annuisce.
“Quindi non hai idea di quello che stiamo facendo?”
“Io sono arrivato dieci minuti fa. Mi hanno detto che mi avrebbe spiegato tutto il mio superiore.”
“Che sarei io, infatti. Ok. Facciamola breve. Quello lì che l’ha fatta finita, lo vedi?”
E come potrebbe non vederlo. A fatica trattiene i conati di nausea.
“Quello è il numero 14. Condannato per reati di maltrattamento, violenza domestica e tentato omicidio. Era qui in riabilitazione.” Si avvicina all’uomo con il cuore spezzato, rimuove delicatamente il congegno applicato alla nuca, proprio in corrispondenza del cervelletto, poi lo mostra al giovane.
“Questo è un trasduttore virtuale. Il bastardo qui pensava di vivere con una compagna. La donna perfetta per lui. Così reale nella sua mente da fargli dimenticare perché si trova qui. Fa parte del programma, che pensino di essere liberi. Ogni tanto lassù dalla regia il vecchio Paul inscena piccoli drammi della gelosia. Se i signori qui riescono a superarli, tutto bene, un passo in più verso la riabilitazione, altrimenti, si torna al carcere vero, quello reale. E le donne le vedi solo sui calendari.
Ma questo qui ha deciso di non tornarci.”
foto: web
cit.: la gioia del risveglio – roberto angelini
cit.: bambolina e barracuda – luciano ligabue